Ha destato sensazione l’annuncio dell’Arabia Saudita dell’obiettivo di costituire un fondo sovrano da oltre 2.000 miliardi di dollari entro il 2030. Ancor più sensazione ha generato il fatto che il Fondo sia parte della strategia “Saudi 2030 Vision” che punta a affrancare il Regno dal petrolio. Per un Paese che detiene le più grandi riserve provate di greggio convenzionale al mondo (260 miliardi di barili), ne ha la maggiore capacità produttiva su scala globale (12,5 milioni di barili al giorno), e dipende per oltre l’80% degli introiti dall’oro nero, sembrerebbe un obiettivo impossibile e velleitario. E probabilmente lo è. È dagli anni ’70 che Riad annuncia piani colossali per diversificare la propria economia, liberalizzarla, sviluppare nuovi settori industriali affidandoli a privati, creare posti di lavoro non-statali, diffondere una cultura tecnico-scientifica in grado di sostenere questo sforzo.
L’ultimo di questi annunci risale alla fine degli anni ’90, quando lo scomparso Re Abdullah lanciò una serie di iniziative dirompenti come la costituzione di un’immensa area scientifico-universitaria sul Mar Rosso libera dalle rigide regole che governano la vita dei sauditi, finanziamenti per le società private in settori diversi dal petrolio, apertura agli investimenti stranieri sul territorio saudita, riforme per consentire alle donne qualche libertà. Eppure, il tentativo di Abdullah è in gran parte abortito e nonostante i miliardi di dollari spesi l’Arabia Saudita è rimasta quello che era: un paese prigioniero del proprio passato incapace di fare a meno del petrolio. Qualcuno potrà obiettare che le cose sono cambiate, perché con il greggio a prezzi ridotti il Regno non ha più scelta. Ma alla fine degli anni ’90 il petrolio stava ancora peggio: nel 1999 scese perfino sotto i 10 dollari a barile, e Abdullah dovette andare in televisione per dire chiaramente ai suoi sudditi che era finita un’epoca e esortarli a “rimboccarsi le maniche” per cambiare il corso della storia. Niente di nuovo sotto il sole. Anche in anni recenti, sono stati tanti i piani faraonici lanciati dal Paese che ristagnano. I sauditi hanno uno dei più ambiziosi piani al mondo di costruzioni di impianti nucleari per la generazione di elettricità con un traguardo ormai impossibile al 2030. Tre scogli hanno impedito al regno Wahabita di evolvere, e si ergono minacciosi sulla strada di ogni riforma. Il primo è lo iato tra posizioni talvolta avanzate e illuminate di alcuni leader e la refrattarietà al cambiamento del resto della famiglia reale e dell’establishment religioso che deve approvare ogni riforma varata dalla monarchia. Per quanto sulla carta il re abbia poteri assoluti, in Arabia Saudita deve fare i conti con gli uni e con gli altri, in una mediazione continua che ha sempre frenato ogni cambiamento. L’attuale sovrano, Re Salman, ha provato a forzare le cose, nominando suo figlio Mohammed vice-erede e mettendolo a capo di importanti istituzioni come il ministero della difesa e l’organo che governa l’Aramco. L’ascesa di Mohammed è motivo di malumore tra molti esponenti della famiglia reale. Non è un caso che sia stato lo stesso Mohammed a annunciare il piano per la costituzione del mega-fondo sovrano nonché il progetto di quotare in borsa il 5% della Aramco. In sostanza, si dovrà capire se il giovane avrà la forza per materializzare quello che hanno annunciato, o se cadranno vittime dei freni dell’establishment che considera gli annunci una fuga in avanti. Il secondo scoglio al cambiamento è costituito dai sauditi stessi. Gran parte di loro è troppo abituato a vivere di generosi e assurdi sussidi che hanno radicato in ciascuno l’illusione di un benessere facile e – soprattutto – “dovuto”. Troppi sauditi, inoltre, sono culturalmente ostili a cambiamenti nel modo di vivere perché considerano giusto e normale, per esempio, che le donne non abbiano diritti (purtroppo, anche molte donne…), o che gli stranieri non debbano avere un ruolo nell’economia del paese. Lo scoglio finale è quello dell’identità religiosa su cui la famiglia Saud ha costruito la propria legittimità interna e internazionale. Fin dalla costituzione del Regno Saudita nei primi anni ‘30, la fede in una forma profondamente fondamentalista e arretrata dell’islamismo sunnita, il Wahabismo, è ciò che ha cementato la presa dei Saud prima su un popolo privo di altra identità collettiva, fatto di tribù e clan nomadi che solo nel wahabismo avevano un comun denominatore. Dagli anni ’70 in poi, inoltre, è stato il sostegno al fondamentalismo islamico internazionale, inizialmente deciso d’intesa con gli Stati Uniti, a allontanare primo lo spettro del somo arabo, poi – con maggiore difficoltà – a evitare che il fondamentalismo radicale si rivolgesse contro i Saud stessi. In queste condizioni, cambiare il corso delle cose è difficile, tanto più adesso che l’Arabia Saudita vive un isolamento che la spinge verso un cammino pericoloso. Stretto tra un mercato del petrolio vulnerabile che non riesce più a governare, il malcontento interno per i tagli di bilancio, la forte erosione dell’alleanza storica con gli Stati Uniti e – soprattutto – la rinascita dell’odiato rivale per la supremazia nel Golfo Persico, l’Iran, il Regno Saudita mostra due volti: da un lato, quello dell’apertura al futuro radioso del 2030; dall’altro, quello minaccioso di un animale ferito che, di fronte al risorgere dell’Iran, continua a sostenere il fondamentalismo islamico fin nelle sue propaggini più radicali, in Siria, Iraq come in Tunisia e Libia. Sono due volti che non possono convivere a lungo. E il rischio vero è che sia il secondo a prevalere, in una spirale di confronto con l’Iran densa di conseguenze nefaste per l’ordine mondiale.
Repubblica