Ambasciatore a Bruxelles voluto da Renzi per imprimere un cambio di passo all’attività diplomatica, cerca di portare uno stile pragmatico nelle istituzioni europee. Il migration compact e i dossier circostanziati
Il nonno Carlo non avrebbe approvato. Lui diplomatico di carriera, ambasciatore, tra l’altro, in India e in Libia, consigliere infine al Quirinale di Carlo Pertini, avrebbe sicuramente condiviso “la rivolta delle feluche” e sottoscritto, insieme ad oltre 200 colleghi, la lettera di protesta al governo contro la nomina del nipote Carlo a rappresentante permanente dell’Italia a Bruxelles presso l’Unione europea. Perché gli ambasciatori avrebbe spiegato il nonno, Carlo Calenda – si fanno con i concorsi pubblici, metodo democratico per scegliere i migliori, abbattere le differenze sociali, portare il popolo dentro le istituzioni, non le dinastie e nemmeno le fazioni politiche. Con il rischio che le corporazioni, però – come ha osservato solo qualche giorno fa l’ambasciatore Sergio Romano – si facciano sindacato. Ma questo è un altro discorso. E poi ci sono le eccezioni (senza scomodare Carl Schmitt), casi estremi quando – senza violare le regole – si possono imboccare altre strade. Ecco, il nipote Carlo è stata la rupture: nominato ambasciatore direttamente dal governo Renzi, senza che fosse renziano della prima ora. Scelta eminentemente politica. I precedenti ci sono (Giuseppe Saragat fu per brevissimo tempo, tra il ’45 e il ’46, ambasciatore a Parigi) ma risalgono al primo dopoguerra, con l’Italia prostrata dal conflitto e dal ventennio fascista alla ricerca di una nuova classe dirigente democratica. Nulla è minimamente assimilabile a quel periodo. Carlo Calenda (il nipote), manager-ambasciatore, rappresenta, però, il primo passo per costruire un nuovo rapporto con l’euroburocrazia e l’eurodiplomazia. Finora a Bruxelles abbiamo ampiamente perso, sul piano politico e pure su quello tecnico. Messi in mora non solo per le nostre colpevoli inadempienze. Deboli nell’azione di difesa, incerti nei tentativi di attacco, incapaci di usare tutto l’armamentario europeo, fatto più di opportunità che di vincoli. Privi di visioni strategiche e di alleanze tattiche. Perché per decenni la politica italiana ha pensato che Bruxelles e Strasburgo fossero dépendance di Roma dove inviare le seconde scelte o gli apprendisti. Lasciando ai tecnici ampia libertà di manovra ma senza policy. Liberi a metà. Ecco, il compito affidato a Carlo Calenda, un po’ manager e un po’ politico, è proprio quello di recuperare quel gap. Mischiare la tecnica con la visione politica. Combattere, quando serve (“Calenda è uno più rissoso di me”, ha detto Renzi davanti alle telecamere di un salotto tv). Trovare alleati, sperimentando anche nuove possibili traiettorie. Introdurre un nuovo metodo. Perché ci vuole un metodo a Bruxelles. E Carlo Calenda (43 anni) è uomo di metodo, meticoloso e tenace. Figlio di un brillante economista (Fabio Calenda) e della regista Cristina Comencini, nipote di Luigi Comencini che gli affidò una parte (quella di Enrico Bottino) nello sceneggiato televisivo Cuore. Liceo al Mamiani, quello di una certa borghesia democratica romana. Tessera della Fgci, la federazione dei giovani comunisti. A soli sedici anni diventa papà e lascia la militanza politica. Dalla sinistra comincia a spostarsi al centro, un tempo occupato dai piccoli partiti laici. Laurea in giurisprudenza a Roma in diritto internazionale. Allora pensava effettivamente di fare la carriera diplomatica, seguire le orme del nonno. Ma non fa il concorso e se ne va a Londra. Lavora in una società che fa trading di diritti televisivi. Poi approda alla Ferrari. Cinque anni con Luca Cordero di Montezemolo, incontro decisivo per la sua formazione professionale. A Maranello si occupa del marketing e del progetto per la quotazione in Borsa del Cavallino. Quando il magnate australiano Rubert Murdoch arriva in Italia e dà vita a Sky, Calenda e Andrea Zappia (oggi amministratore delegato di Sky Italia) lasciano la Ferrari e passano alla televisione satellitare a pagamento. Meno di due anni dopo Montezemolo chiama Calenda in Confindustria dove diventa direttore degli affari internazionali. È tra i coordinatori delle missioni all’estero delle piccole e medie imprese, importanti per dare nuovi mercati di sbocco ai produttori italiani. Finita la presidenza Montezemolo, anche Calenda lascia la Confindustria. Va, come direttore generale, all’Interporto campano di Gianni Punzo. Poi arriva (o ritorna) la politica. È il coordinatore politico di Italia Futura, fondazione con cui Montezemolo pensa di entrare in politica. Montezemolo fa un passo indietro, mentre Calenda si candida, dopo aver partecipato alla fondazione, con Scelta Civica di Mario Monti. Non viene eletto. E farà un’autocritica severa quanto sincera in una lettera pubblicata sul Messaggero: “Poche iniziative nella storia politica italiana hanno avuto una parabola così bruscamente discendente come quella di Scelta Civica. Personalmente sento di avere molte responsabilità in proposito a partire dalla retorica sulla superiorità della società civile che per anni ho coltivato già a partire dal mio impegno in Italia Futura. Oggi penso che questa sia stata una delle cause principali del nostro fallimento”. È Enrico Letta che lo chiama al governo, vice ministro allo Sviluppo economico con la delega al Commercio estero. Renzi lo conferma e comincia a conoscerlo. Gli piace perché è un negoziatore che non molla mai. Gli affida una delicata mediazione in Mozambico, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, tra gli esponenti del Renamo e il governo di Armando Gueguza. Ma è la “vittoria” a Bruxelles, condivisa con gli altri paesi del sud d’Europa, che rinvia il riconoscimento alla Cina di Paese ad economia di mercato, che a Palazzo Chigi fa salire le quotazioni di Calenda. L’effetto sull’economia italiana sarebbe stato devastante: 400 mila posti di lavoro a rischio, secondo alcune stime. La Germania che ha trasferito pezzi importanti del suo apparato produttivo in Cina non era contraria a quel riconoscimento. Calenda interpreta l’interesse della media industria italiana che ha qualità ma non sufficiente forza finanziaria per aggredire i nuovi mercati. Ma se vogliamo giocarci la nostra partita è con questi giocatori che possiamo farcela. Aiutandoli. Certo se non fosse stato nominato ambasciatore, oggi Calenda sarebbe il ministro dello Sviluppo dopo lo scandalo che ha travolto Federica Guidi. Il metodo, allora, l’ha portato a Bruxelles. Senza strappi, a quanto risulta. Lo staff non è cambiato, è rimasto quello del suo predecessore Stefano Sannino. È cambiato, secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche, proprio il metodo di lavoro. Si lavora su due piani: quello dell’interesse nazionale e quello dell’interesse europeo, all’interno del quale ovviamente c’è anche quello dell’Italia. Che prova a ritrovare il prestigio riconosciuto ai fondatori dell’Unione. È con questo approccio che è nato il “Migration compact”, accolto bene sia dalla Commissione di Jean-Claude Juncker sia dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk; e ancor prima il documento del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, per una strategia europea condivisa per la crescita, il lavoro e la stabilità. Documenti (position papers) che servono per parlare con le istituzioni, non direttamente con i governi. E che poi vengono girati pure agli europarlamentari italiani. È un metodo che già utilizzano Francia e Germania. Mentre è un britannico l’altro rappresentante permanente a Bruxelles che non appartiene alla diplomazia. E del nuovo metodo fa parte anche la discesa a Roma di Calenda, una volta a settimana, per un contatto diretto con Palazzo Chigi, la Farnesina, il ministero dell’Economia. Presto avrà un ufficio nella Capitale. Questo è l’esperimento in corso del manager-ambasciatore.
Repubblica