Il pacchetto azionario era valutato intorno ai 5 miliardi di dollari alla fine del 2015: ora lo preoccupa il difficile contesto in Cina. In tre anni di permanenza ha ingaggiato una battaglia perché Tim Cook distribuisse più utili ai soci. Il ritratto del discusso raider, partito con un prestito per conquistare una poltrona di broker alla Borsa di New York
Il miliardario Carl Icahn, uno degli ultimi squali di Wall Street, alla ‘vecchia maniera’ dei film hollywoodiani, è uscito dal capitale di Apple, dove rivestiva il ruolo di grande azionista. “Non deteniamo più una posizione” in Cupertino, ha detto alla Cnbc annunciando la retromarcia a tre anni di distanza dall’ingresso in quella che continua a considerare “una grande azienda”. Una notizia che ha appesantito il titolo Apple, che ha lasciato sul terreno 3 punti percentuali a 94.87 dollari.
Tre anni, come molti altri della sua vita, trascorsi intensamente. Riavvolgendo il nastro dalla fine, il miliardario ha spiegato che la sua ritirata si lega ai timori sull’evoluzione degli affari di Apple in Cina. E non è questo un bel segnale per la società, reduce da pesanti ribassi in Borsa a seguito di una trimestrale deludente, con il primo calo dei ricavi da tredici anni a questa parte e le vendite di smartphone in sofferenza. Il mal di Cina viene a Icahn da alcuni episodi che hanno mostrato come i regolatori di Pechino possano mettersi, eccome, di traverso rispetto alle mire espansionistiche della società della Mela, che già deve fare a sportellate in un ambiente sempre più competitivo e in un mercato saturo. I servizi iTunes Movies e iBooks sono stati recentemente spenti dalle autorità cinesi, che hanno mostrato la vulnerabiltà di Apple sotto questo punto di vista. Per Icahn, è vero che Apple ha buone relazioni nel Paese – anche perché impiega molte persone lungo la sua filiera – ma dipende anche molto dalla Cina er le sue prospettive di sviluppo.
L’ultima posizione di Icahn era stata fotografata in un documento inviato alla Sec a febbraio, quando era emerso che nel quarto trimestre fiscale di Cupertino aveva venduto 7 milioni di azioni Apple ed era rimasto con un pacchetto da 45,8 milioni, che valeva poco meno di 5 miliardi di dollari alla fine del 2015. Quando era entrato nella società degli iPhone, la sua quota valeva 1 miliardo e dopo pochi mesi aveva arrotondato a 3 miliardi. Oggi Apple ha una capitalizzazione che supera i 500 miliardi, ma è ben lontana dai suoi record: da inizio anno ha perso il 7% del valore. Anche in questo caso, come altre volte in passato, Icahn sembra aver anticipato il declino: ha iniziato a vendere un istante prima che le difficoltà della società di Tim Cook venissero sotto gli occhi di tutti.
Proprio il ceo Cook è stato uno degli elementi sui quali, dall’ingresso dell’agosto 2013, Icahn ha fatto maggiormente pressione perché Apple iniziasse a condividere con i suoi azionisti la montagna di cassa che riusciva a metter da parte grazie alla galoppata delle vendite di smartphone e tablet. Denari accumulati per anni, che con l’attivismo di Icahn (che chiedeva un piano di buyback da 150 miliardi nel solo 2014) hanno iniziato a fluire copiosi nelle tasche degli azionisti. Il suo desiderio non è stato accolto in toto, ma sono da lì iniziati piani di distribuzione degli utili attraverso l’assegnazione di dividendi e il riacquisto delle azioni. Una concessione al grande investitore battagliero che ha portato l’azione Apple a un rally del 38% nel corso del 2014, che si è però esaurito l’anno scorso (-4,6% il bilancio). In ogni caso, la pressione di Icahn ha ormai lasciato un segno profondo nella gestione di Apple, che a inizio settimana ha spiegato che distribuirà agli azionisti 250 miliardi entro il marzo 2018.
Stando alle dichiarazioni alla stampa, la stima di Icahn verso Tim Cook è stata reale. Come annota il Financial Times, ha avuto parole di miele per il manager e la società: “E’ il ceo ideale”, ha detto del successore di Steve Jobs. “E’ una compagnia di quelle che ti capitano solo due volte in un secolo”, si è sbilanciato per Apple. Le sue ultime previsioni, però, sono andate deluse e forse anche per questo ha preferito battere in ritirata: meno di un anno fa, Icahn pronosticava per il titolo Apple il raggiungimento di quota 240 dollari per azione, mentre ora è sotto 100. Nel maggio 2015, puntava a 12 dollari per azione di guadagni nel 2016, mentre ora gli analisti si fermano a quota 9. E anche dal punto di vista industriale le cose non vanno meglio: iPhone e iPad non crescono come si aspettava, anzi si ritirano in un mercato iper-competitivo e saturo, mentre la Apple Tv (che per lui sarebbe dovuto essere un botto da 15 miliardi di dollari), non viene neppure menzionata nelle conferenze finanziarie.
Errori di valutazione che non ne scalfiscono la reputazione e – forse, in minima parte – assottigliano un guadagno che ha da sempre caratterizzato le sue ‘scorribande’. Nato nel 1936 nel Queens, da una coppia insegnante-cantore in sinagoga, Icahn ha studiato nelle scuole pubbliche prima di entrare a Princeton sui banchi di filosofia. La passione per gli investimenti è scoppiata negli anni Sessanta: nel giro di un decennio ha messo in piedi la sua società di brokeraggio (grazie a un prestito da 400mila dollari si è conquistato la sua poltrona alla Borsa di NY) e nel giro di un altro decennio è comparso nei radar ufficiali degli azionisti di peso. Nel 1984 il salto di qualità, con l’acquisizione di una fetta cospicua del capitale della petrolifera Texaco. Per quanto non gli piaccia, gli acquisti e le cessioni di pacchetti azionari rilevanti – con l’obiettivo di farci soldi – lo hanno portato alla ribalta della comunità finanziaria come un “raider”, che nel gergo degli addetti ai lavori è proprio colui che sfrutta i suoi capitali, trova occasioni sul mercato, ristruttura o spacchetta le aziende nelle quali è entrato e quindi cede la partecipazione, ovviamente rivalutata. Per ottenere il suo guadagno, spesso ha dato vita a battaglie in seno alle compagnie nelle quali si è inserito: TWA, Nabisco, Gulf & Western e Uniroyal sono state tra le prime. Nel terminale Bloomberg, alla sua voce non manca l’aggettivo “controversa” per descriverne l’attività. Ma è difficile sostenere che non abbia pagato: fin da Texaco, negli anni Ottanta, ha raddoppiato i suoi soldi. Il suo patrimonio è valutato dall’agenzia finanziaria Usa in una ventina di miliardi di dollari, che lo proiettano tra i 20 uomini più ricchi degli States e al 33esimo posto nel mondo.
Oggi la sua fortuna è custodita nelle Icahn Enterprises, che sono quotate, e nel family office Icahn Partners. Nella sua biografia non manca, come per ogni miliardario Usa che si rispetti, la voce delle donazioni: protezione per le madri single, e assistenza sanitaria-scolastica nella regione di New York.
Repubblica