Enologo colto e moralista gaudente
di Stefano Lorenzetto
L’ultima volta che mi sono seduto in un ristorante italiano decorato con tre stelle dalla guida Michelin, a fine pasto il patron ha ingiunto a me e ai miei commensali di spalancare la bocca e ci ha solforato nel cavo orale un paio di spruzzi d’un distillato talmente memorabile che ne ho già scordato nome e qualità organolettiche. Il vaporizzatore in lucente inox era identico a quello che i barbieri utilizzano per rendere trattabili le chiome più riottose prima del taglio. Quando da studente mi guadagnavo qualcosa come proiezionista, ne usavo uno simile per togliere il persistente afrore d’ombelico basso che stagnava fra le poltroncine del cinema di periferia.
Violato nella mia intimità, umiliato da quel grottesco rituale, costretto a rimanere come un coglione nella posa che a torto o a ragione ha procurato grande notorietà e scarsa reputazione alle bolognesi, attendevo con pazienza d’essere irrorato e intanto pensavo fra me: chissà che direbbe o che farebbe a questo punto Camillo Langone. Con la serena certezza che solo lui, il gastrocritico del Foglio, il moralista gaudente, lo snob alla mano, l’enologo colto che detesta tanto i vini quanto gli spermatozoi in barrique (nemico com’è della fecondazione artificiale esercitata «in ambienti asettici e legali dove nessuno beve, nessuno fuma, nessuno chiava»), avrebbe avuto l’ardore per ribellarsi a quell’oscena liturgia.
Di liturgie vere Langone s’intende parecchio. Nei quaranta giorni che hanno preceduto la Pasqua è riuscito a fustigare i suoi lettori laicisti con un quaresimale quotidiano dagli accenti savonaroliani: «La natura non tollera vuoti e chi azzittisce le campane sentirà al loro posto le sirene della polizia, poi quelle delle ambulanze, e infine il grido del muezzin». I suoi pranzi in ristoranti e trattorie sono sempre preceduti da visite a basiliche e santuari o dalla partecipazione a messe tridentine in latino celebrate secondo il rito di Pio V, almeno nelle città dove i vescovi le autorizzano, e puntualmente seguiti, se ha mangiato bene, da qualche rutto in forma di fantasiosa invettiva: «Nel condominio meglio avere una ginetera che un imam».
Attizzato da Giuliano Ferrara, che adora il suo modo di scrivere, solo Langone poteva inventarsi Maccheronica, la «guida palatale, inservibile ma preziosa» con cui da qualche anno delizia i foglianti, ora diventata finalmente un libro per Mondadori (192 pagine, 15 euro), corredato da un sottotitolo fin troppo didascalico – «Guida reazionaria ai ristoranti italiani» – che però ha il pregio di fotografare l’autore per quello che egli veramente è: il Borbone dei sensi e della tovaglia. Maccheronica è stata concepita per reazione alla critiche gastronomiche classiche, quelle che fanno la gioia degli avventori di bocca buona: indirizzo, numero di telefono, parcheggio, menu, voto sotto forma di stelletta, forchettina, solicino, cappellino da cuoco, carte di credito accettate tutte, formula d’obbligo finale «vini esclusi», ché è sul Sagrantino che tirano a ciularti, si sa.
Langone non frequenta il ristorante per mangiare e poi smoccolare sull’esosità del conto, come fan tutti, tant’è vero che in Maccheronica non si cura nemmeno di riferire quanto spende. No, se lui decide di recarsi in pellegrinaggio alla venerata Madonnina del Pescatore, dove officia quel Moreno Cedroni che il nostro Paolo Marchi ha incluso della santa trinità degli chef creativi italiani, è solo per accertare che sta in «una brutta frazione balneare della bella Senigallia» (la quale «vista di giorno fa venire voglia di andare da un’altra parte», ma «al tramonto, specie se il tempo è brutto, il sito diventa perfino bello, con la luna rossa sulla linea dell’orizzonte, la groppa del Conero a destra, e anche d’autunno possiede il fascino del mare d’inverno, quello poco moderno che urla e biancheggia tra Giosue Carducci e Loredana Berté») e per raccontarci che il locale «subito risulta freddino, troppo essenziale, poi accorrono i camerieri che sono marchigiani e riscaldano», in compenso c’è «un bellissimo (cioè invisibile) impianto stereo, che diffonde note giuste ed è un piccolo miracolo (è pieno di ristoranti dove si mangia bene ma si ascolta male)» e comunque conforta «l’assenza di stranieri, il tutto esaurito parla accenti indigeni», «qui ogni piatto contiene un’idea». Insomma, il cibo come esperienza polinsensoriale. Del resto Maccheronica nelle intenzioni dell’autore vuol essere una guida allo star bene. Non a caso l’unica cucina etnica che vi ha diritto di cittadinanza è quella regionale italiana, la più minacciata di estinzione fra doner kebab, churrascarie e tandoori.
Di Camillo Langone conosco soltanto quello che scrive, e quindi che leggo, o che sento per telefono dalla sua viva voce. Non l’ho mai incontrato, né visto in faccia, neppure in fotografia. Gli dispiacerà apprendere che me lo immagino – non so perché, tortuosità della psiche – somigliante a Edmondo Berselli, il politologo del Mulino: corpulento il giusto, accigliato senza motivo, le occhiaie del gozzovigliatore tiratardi. Dipenderà dal fatto che Berselli è di Modena e Langone abita a Parma. In effetti 59 chilometri di distanza mi sembrano l’unico elemento di contiguità fra i due.
Mi dicono che il maccheronico, nato a Potenza e vissuto in varie città, fra cui la mia, infine approdato nel ducato per una scelta puramente estetica, prima di dedicarsi alla scrittura abbia fatto l’enotecario (per cui dobbiamo essere grati alla clientela che, disertando la sua bottega, l’ha indotto a cambiare mestiere). Da questo imprintig professionale deriverebbe il faticoso vezzo di uscire dai ristoranti portando seco i vuoti delle bottiglie di vino che vi ha bevuto.
Buona norma del giornalismo avrebbe consigliato che gli mandassi un’e-mail, prima di scrivere la presente recensione, chiedendo informazioni di varia umanità sul suo conto, con le quali abbellire la mia prosa. Non l’ho fatto, nell’inconscia speranza che egli rimanga in aeternum ciò che per me è: un’immateriale categoria dello spirito. E mi stupisce molto che Langone desideri con insistenza d’incontrarmi al fine di carpire – l’ha rivelato sul Foglio – il segreto della mia operosità e di cominciare a guadagnare quanto me, dovendo entro l’inizio dell’autunno pagarsi una giacca blu ordinata al bravissimo sarto fiorentino Liverano (1.700 euro); comprarsi i Poeti del Duecento pubblicati nel 1960 da Ricciardi e i Pensieri di Pascal nell’edizione della Pleiade, disponibili soltanto presso certi avidi librai antiquari di sua conoscenza; procurarsi un magnifico corsetto vittoriano del tipo basso in seta con stecche rigide; soggiornare tre giorni e tre notti all’hotel Gabbia d’oro in corso Porta Borsari, a Verona, con l’indossatrice del corsetto (351 euro a notte, colazione esclusa). Mi sono sentito in dovere di raccomandarlo, se lo desidera, ai titolari della predetta gabbia, che già in passato si sono dimostrati munifici con le aquile scrivane, mettendo gratuitamente a disposizione per il pisolo postprandiale di Enzo Biagi la parte di voliera prospiciente la casa natale di Emilio Salgari.
Credo che la gola, per Langone, rappresenti soltanto un piacevole intermezzo fra le altre due sfrenatezze in cui eccelle, il pensiero e l’erotismo. Ve n’è una terza, ovviamente, la scrittura, come hanno avuto modo di constatare recentemente Aldo Nove, il romanziere di Milano non è Milano, «ennesimo manifestino di nichilismo da centro commerciale», e meno recentemente Alfredo Tomaselli, titolare del celebrato ristorante Dal Bolognese di Roma. Ma purtroppo il bon vivant lucano tempo fa mi ha confidato al telefono che il suo sogno è quello di scrivere un unico libro di successo e di campare per il resto dei suoi giorni con i diritti d’autore, senza mai più toccare la penna. Il che m’induce a consigliare ai lettori, sia pure a malincuore, una prudente parsimonia nell’acquisto delle sue imperdibili opere, se non vogliamo giocarcelo.
Per restare alla gola, purtroppo soltanto in Francia i ristoratori scarsi si suicidano, mentre in Italia querelano, osserva Langone. Quando non scrivono (che è perfino peggio) piccatissime lettere al direttore, come fece il Tomaselli dopo una recensione uscita sul Foglio: 9.943 caratteri di risentimento al solo scopo di conferire al nostro, nell’ultima riga, il titolo di «Vate della Lasagna». Ne ebbe in cambio un epitaffio di 179 battute: «Vista anche la consistenza della sua pasta all’uovo, con l’autorità che mi spetta in quanto Vate della Lasagna la nomino – rullo di tamburi – Gran Maestro del Tortellino di Bronzo».
Grande, grandissimo Langone. Dobbiamo vederci.
Stefano Lorenzetto, Il Giornale, 2004