Con il sesto fondo Investindustrial ha raccolto due miliardi da puntare sul Sud Europa. Preferito le società industriali rispetto alla banche. E’ pronto il nuovo modello che rilancerà Aston Martin. Respinte le avances per Rcs
“Il mondo rischia un nuovo rallentamento e la volatilità è molto forte. Ma per un fondo di private equity è il momento perfetto per scendere in campo ed esercitare il proprio ruolo. E’ quello che farà Investindustrial, sovaldi sale non ci vedrete rallentare”. Andrea Bonomi – newyorkese di nascita, milanese di tradizioni e svizzero di residenza – ha appena chiuso il sesto fondo di private equity: due miliardi di euro, il 40% dagli Usa, zero dall’Italia. “Per gli stranieri siamo la porta di accesso per investire nel nostro Paese; noi continuiamo a lavorare con investitori con cui facciamo raccolta da oltre 25 anni. L’Italia è un sistema complesso, dove c’è sempre una relazione da tener presente “. E, in questo momento, sta vivendo grandi tensioni sui mercati finanziari.
Dottor Bonomi, il nostro paese sembra sotto schiaffo sui mercati finanziari e lei ha appena chiuso un fondo specializzato nel Sud Europa, il che significa essenzialmente Spagna e Italia, con una piccola propaggine in Portogallo; ritiene sia una scelta geografica e temporale felice?
“Penso che la volatilità per noi sarà un’opportunità; però è vero, molti fondi di private equity stanno tirando i remi in barca. Certo, anche noi siamo preoccupati del momento, ma tutto sommato queste difficoltà le considero rumore di fondo”.
Con i tassi a zero è più facile la ricerca di finanziamenti.
“In realtà continua a non essere facile trovare soldi. E’ un mercato molto duro e continuerà una forte selezione, con private equity che sopravviveranno e altri no: ad esempio in Italia sono rimasti in pochi”.
Questo fondo ha una provvista di 2 miliardi.
“Siamo leader per dimensioni, considerata l’area di investimento (il Sud Europa), sia per liquidità che per dimensione del team, capeggiato da Managing Principal forti come Dante Razzano e mio fratello Carlo Umberto. E poi in realtà c’è una dotazione supplementare di un miliardo, che può essere attivata su progetti in cui i nostri investitori vogliano co-investire. Un miliardo che può essere messo, in teoria, anche su un solo progetto”.
La percezione della Spagna e dell’Italia è molto diversa: come mai?
“L’Italia viene considerata molto più fragile a causa del sistema bancario troppo rigido. Abbiamo accumulato anni di ritardo rispetto alla Spagna, lì le riforme le hanno già fatte, da noi ad esempio abbiamo cambiato la legge sulle popolari e poi abbiamo dato altri 18 mesi di tempo per adeguarsi: un’eternità. E poi c’è il moloch dei non performing loans”.
In realtà il sistema bancario spagnolo negli anni passati ha avuto sconquassi ben più forti.
“Verissimo. In Spagna la crisi è stata più acuta ed ha azzerato tutto; è stato drammatico, ma ora i bilanci sono snelli e ripuliti, il sistema moderno. Da noi la crisi è stata più lieve, le banche sono state messe in sicurezza, ma questo non basta per guardare al futuro con serenità. Non c’è alcun dubbio sulla solidità del sistema finanziario italiano, ma questo può non bastare: le banche devono anche avere un futuro come imprese”.
Però in Borsa c’è stato un vero accanimento, dall’inizio dell’anno in poi.
“Sono convinto che la Bce non voglia si arrivi ad un nuovo rallentamento economico con i paesi del Sud non pronti. E i mercati lo stanno scontando, per questo si sono mossi d’anticipo, in particolare sull’Italia: ci stanno mettendo in ginocchio ora pensando al futuro. Il mercato in questo momento sta incominciando a “prezzare” i crediti in difficoltà come se le banche dovessero venderli tutti ora, quindi li stimano al massimo al 20% del valore nominale. Questo conticino porta a dire che al sistema bancario mancano 20 miliardi di patrimonio, un po’ meno con le fusioni, che tuttavia avranno costi sociali molto forti sul piano occupazionale. E dall’unione di una buona banca con una peggiore non ne nasce una migliore”.
Eppure, fino a due mesi fa il governo Renzi sembrava riscuotere solo successi sui mercati finanziari. “Sono stati fatti dei passi ma l’Italia non è ancora a posto, la luna di miele con la finanza è momentaneamente finita”.
Però con il suo fondo è pronto a investire, proprio in Italia.
“Sì perché continuiamo a credere che alla fine l’Italia ce la farà. E poi l’Italia la vogliono tutti, purtroppo spesso sono proprio gli italiani a rinunciare a investire su se stessi”.
Quindi anche banche?
“Noi pensiamo soprattutto all’industria. Anche perché c’è un momento per tutto: nelle banche ci siamo già stati, con Bpm. Riteniamo che le banche dovranno adeguarsi, esprimere valori anche più bassi di quelli attuali; in questo caso, non è escluso che ci riavvicineremo”.
Il focus però è l’industria.
“Sì. Guardiamo alle aziende che sono già internazionali e che vogliono internazionalizzarsi ancora di più. Dopo un lungo periodo in cui non nascevano nuovi Benetton ora ci sono imprenditori che hanno voglia di rivincita, insieme in molti casi ad un ricambio generazionale che un fondo di private equity può affiancare”.
Descrive una parte d’Italia molto dinamica.
“Noi italiani siamo speciali: da una parte siamo bravissimi nel bloccare le cose, nel potere di interdizione, con un sistema che si auto-protegge. Però c’è anche molta voglia di fare. Ci sono aziende storiche – come Flos o B&B Italia, in cui le famiglie vogliono che le loro imprese continuino ad esistere, anzi che facciano un ulteriore salto. Per questo scelgono un azionista solido, con un approccio industriale”.
In realtà un fondo di private equity fa altro.
“Noi abbiamo un’ottica assolutamente industriale. Ad esempio non usiamo indebitamento, se non in misura molto contenuta: la media degli ultimi 25 anni è di 3,2 volte l’Ebitda, un livello molto più basso del sistema e che spinge l’azienda ad investire per creare valore. Preferiamo gli aumenti di capitale, non il debito. Non a caso una parte delle risorse dei nostri fondi – e in quest’ultimo caso, il 20% – è riservata ad operazioni di follow on, in cui la singola società può scegliere altre aziende da comprare, per rafforzarsi nella crescita. E’ quello che ad esempio è successo con Flos”.
A proposito di investimenti, di recente siete stati chiamati in causa per Rcs, si dice corteggiati da Giovanni Bazoli: ci state pensando?
“Le potrei rispondere che siamo chiamati in causa per ogni operazione complessa (e ridacchia di sottecchi,ndr). E’ un mercato che conosciamo bene e stimiamo tutti i soci, ma in questo momento stiamo guardando ad altro”.
Cosa farete con il nuovo fondo?
“Puntiamo a tre operazioni in Italia, da qui a fine anno; in tutto ne faremo tra sette e dieci, compresi gli altri mercati. Continueremo sicuramente nel design, in cui siamo già ben presenti: complessivamente, pensiamo di arrivare ad un miliardo di investimenti in questo settore. E poi ovviamente il lusso: con Sergio Rossi abbiamo riportato in Italia la scarpa di lusso, dopo la parentesi francese con il gruppo Kering. Probabilmente ci investiremo molto più di quanto l’abbiamo pagata: per rilanciarla ci vorranno dai 5 ai 10 anni”.
Tra qualche settimana arriverà invece il nuovo amministratore delegato, Riccardo Sciutto, in uscita da Hogan. Giusto?
“Non commento le indiscrezioni (ma ancora una volta ridacchia, ndr). Le posso solo dire che ho ascoltato i consigli di Diego Della Valle con attenzione prima di entrare nel settore”.
Dalla chimica invece prendete le distanze?
“In realtà ci interessa continuare anche in questo settore, dove siamo già presenti con Polynt. Staremo invece alla larga dai business regolamentati “.
E Aston Martin? Il grande rilancio non sembra ancora arrivato e anzi è stata tagliata la forza lavoro.
“Con Aston abbiamo dovuto attraversare il deserto, per l’auto ci vogliono cinque anni per vedere un’inversione di tendenza. Noi siamo arrivati al quarto anno e tra poche settimane presenteremo, al salone di Ginevra, la nuova DB9, che ha assorbito 250 milioni di sterline di investimenti sui 500 previsti in totale. Non faremo aumenti di capitale sul gruppo e nei prossimi mesi speriamo di annunciare dove nascerà una nuova fabbrica”.
Magari per produrre il cross over per il mercato cinese.
“Per quello ci vorrà ancora qualche anno ma siamo già molto avanti sulla Rapide elettrica. Comunque dal punto di vista finanziario il 2015 è stato meglio del 2014 e il 2016 sarà l’anno della svolta: abbiamo le carte in regola per essere competitivi con gli amici di Ferrari”.
Su alcune operazioni alla fine vi siete ritirati. L’ultima – e forse la più impegnativa – è stata la battaglia per il Club Med.
“Facciamo le offerte che riteniamo corrette. Così è stato per Club Med e Bsi e lo stesso dicasi per Carige: ci piaceva l’approccio di mercato impostato dal nuovo consiglio di amministrazione, ma i soci volevano un prezzo troppo alto e un aumento di capitale troppo basso. La storia dice che avevamo ragione”.
Il suo più grande rimpianto?
“Non rimpiango mai niente, mi piace guardare sempre al futuro, ma in Bpm non ce l’abbiamo fatta a completare il progetto. Ci abbiamo anche guadagnato, ma rispetto ai rischi che ci siamo presi è stato uno dei peggiori investimenti. Peccato, sarebbe stata una banca indipendente fantastica”
di Vittoria Puledda “Repubblica”