di Stefania Miccolis
Forse non tutti si ricordano del film del 1931 di George Fitzmaurice, mind capsule Mata Hari, dove una ammaliante Greta Garbo, l’attrice dai grandi occhi che poteva chiudere ed aprire come quelli di una bambola tanto erano incastonati e profondi, immortalava il personaggio già divenuto leggenda. Il gioco ambiguo di seduzione accentuato dagli occhi e dalle sopracciglia inarcate della bravissima attrice, si alternava alle danze con il fasto dei vestiti, e alle bugie ingannatrici e all’intrigo dei sentimenti della spia di cui tutti rimanevano innamorati, nell’epoca della Belle Époque (non poi così lontana dalla realizzazione del film). E se nel film Mata Hari muore a causa di sentimenti per un soldato russo, nella storia vera sappiamo che muore per la sua superficialità e ingenuità.
Giuseppe Scarraffia, fine francesista oltre che insegnante, scrittore, ricostruisce “Gli ultimi giorni di Mata Hari” (così il titolo del libro, ed. Utet, 2015) con i giornali del tempo, testimonianze, documenti, diari, opere letterarie. Intorno a Mata Hari nel libro si sviluppano le storie di chi ha vissuto in quell’epoca, l’ha conosciuta o ne ha solo sentito parlare, di chi avrebbe voluto conoscerla e ne ha ricavato il mito e la leggenda: “quel che serve di più sono i minuscoli tasselli che si trovano in libri che non riguardano direttamente i nostri autori, ma li illuminano di sbieco in una luce imprevista”. E allora ecco che i nomi di D’Annunzio, Marinetti, Lawrence d’Arabia, Ernest Hemingway, Virginia Woolf, Marcel Proust, entrano nella storia, la accompagnano dall’esterno, ci si intrufolano, o la sfiorano solamente, mentre lei, la protagonista, viene descritta dalla nascita fino alla morte, e soprattutto nei giorni della condanna del processo e della fucilazione. Nel libro di Giuseppe Scaraffia impariamo che Mata Hari come spia non era tanto brava e neanche tanto ingannatrice; subito viene scoperta e ridicolizzata, accusata di alto tradimento dai francesi (scaricata dallo spionaggio tedesco, che la tradì fornendole un cifrario già noto ai francesi”), ma non avendo in realtà commesso nulla di grave – il procuratore che l’aveva fatta condannare a morte disse che “le prove contro la ballerina non sarebbero bastate neppure per frustare un gatto”-. Venne quindi presa come capro espiatorio di tutta un’età: “Arrestata, il suo processo diventò il palcoscenico su cui il nuovo secolo giudicava e giustiziava la Belle Époque”: “Quell’ingenua di Mata Hari era stata vittima di un gioco di ombre. Lei che si illudeva di dominare gli uomini era stata travolta dalla troppa fiducia in sé”. La sua seduzione, che sembrava di menzogna e sortilegio, era stata piena di passione, ma leggera. Era stata circondata da uomini che l’avevano amata, amanti facoltosi e ricchi, dell’alta società, tanti ufficiali – era sempre vissuta “per l’amore e per il piacere” , amava gli ufficiali (“li ho amati tutta la vita”) – e poi scivolò anche nella prostituzione d’alto bordo. Brava era nell’inventare le storie Margaretha Geertruida Zelle e nel rendere magica la sua vita, a cominciare dal suo nome d’arte Mata Hari “Occhi dell’alba”, “sole”, con cui si dava un alone esotico: “figlia di una sacerdotessa indiana”, “cresciuta in un tempio di Shiva” con una “nonna giavanese”, “nelle sue vene scorreva sangue indiano”, o “figlia del principe di Galles e di una principessa indù”. Si fece accettare come vera danzatrice di danze orientali anche se improvvisava con “impreparazione tecnica”. “Le invenzioni di Mata Hari venivano amplificate e trasformate dall’eco della fama”. Aveva un bellezza particolare: pur essendo olandese era mora, “con occhi vivi e ardenti sotto la massa di capelli scuri”, “donna alta e sottile”, “linea superba, portamento nobile, semplice e pieno di personalità”. L’incarnazione della femme fatale “la Salomé seminuda e ingioiellata di Gustave Moreau”. Gambe lunghe e affusolate, ma seni piccoli, forse un po’ troppo magra per l’epoca. Colpiva per le sue entrate, completamente nuda su “un cavallo bianco, bardato di turchesi”, oppure su un elefante. Tante erano le emozioni che aveva regalato a quegli uomini – “scrittori, intellettuali, dandy, diplomatici e ufficiali” – che ora dopo il processo, in attesa di esecuzione, erano col fiato sospeso.
Poteva essere uccisa solo da chi non l’aveva vista danzare, ed infatti nel plotone erano tutti contadini; per loro era probabilmente “un giocattolo per ricchi”, “un privilegio che per una volta potevano calpestare e non sapevano che stavano per fucilare il passato, l’euforia e le illusioni della Belle Époque”. Ed è morta interpretando la sua parte. Mata hari, Luce dell’alba sole, non si è fatta bendare gli occhi e non si liberò con facilità come avrebbe potuto perché le fecero una legatura finta. Con Mata Hari, che “voleva intensamente essere un’opera d’arte vivente”, si chiude un’epoca. Ma la leggenda rimane: “In tanti l’avevano amata in sogno, anche per molti anni dopo la sua fucilazione”. E di lei si parla ancora e si sogna ancora…e si scrivono libri.
STEFANIA MICCOLIS