Per la prima volta nel prossimo maggio il vertice verrà scelto non per cooptazione, stuff ma per elezione diretta. Il cambiamento, però, è ben maggiore: al successore di Squinzi sarà chiesto di fare meno politica, più lobby e non si sa ancora quanto “sindacato”
ROMA – C’ è ancora un mese, più o meno, per candidarsi alla presidenza della Confindustria. Ma il problema non è tanto, e non solo, chi sarà il successore di Giorgio Squinzi al vertice di Viale dell’Astronomia, il problema è quale sarà la Confindustria del dopo-Squinzi. Perché negli ultimi quattro anni la Confindustria è diventata un’altra cosa, rispetto al passato. Associazione in crisi di identità, come – d’altra parte – il capitalismo italiano. La Confindustria del “signor Nessuno”. Meno politica perché la politica si è ripresa i suoi spazi e ha riaffermato il proprio primato; poco sindacale perché di fronte all’urgenza di cambiare il modello contrattuale concepito nel Novecento e ancorato a dinamiche inflazionistiche che oggi appaiono marginali, è entrata in confusione, incastrata tra i veti della Cgil e i particolarismi delle sue categorie lasciando sola la Federmeccanica a combattere la battaglia per il “rinnovamento”, e non il “rinnovo”, contrattuale.
Più lobbista, perché questa è l’azione che ha contribuito a incassare vantaggi per i propri associati forse anche al di là delle più ottimistiche previsioni, ma offuscando la presunzione (sempre coltivata con ambizione) di saper rappresentare l’interesse generale fino, a tratti, a dettare l’agenda della politica. Meno rappresentativa perché l’uscita della Fca (durante la presidenza Marcegaglia) continua a pesare sul profilo dell’organizzazione nella quale le grandi imprese, i soli player che possono davvero contare nelle opzioni strategiche internazionali nonché sulle scelte di policy nazionale, sono perlopiù le aziende controllate dal Tesoro con scarsi margini di autonomia rispetto al governo: Eni, Enel, Finmeccanica, Poste. Squinzi non è stato un leader convincente. Grigio nella comunicazione, debole nella capacità di interpretare i rapidi mutamenti del contesto (l’arrivo di Matteo Renzi a palazzo Chigi ha spiazzato entrambi i fronti della rappresentanza sociale abituati a giocare sulla comoda scacchiera della concertazione), a dispetto delle sue indubbie qualità di imprenditore globale con interessanti e vincenti incursioni nel mondo sportivo, prima con la Mapei nel ciclismo poi con il Sassuolo nel calcio di serie A. Eppure Confindustria è di fronte alla grande occasione. Per una coincidenza, più che per vera lungimiranza, il nuovo presidente di quella che resta la più influente associazione imprenditoriale, sarà scelto ed eletto con le nuove regole della riforma Pesenti: sulla carta è la fine della cooptazione. Un presidente eletto dal basso, un presidente che si autocandida. Più trasparenza, meno ipocrisia, più democrazia ma anche una maggiore polverizzazione del consenso. Lo si vedrà alla prima prova dei fatti. Il 28 gennaio sarà il Consiglio generale (l’organismo che ha sostituito la Giunta) a scegliere i tre saggi che consulteranno l’organizzazione sul prossimo presidente. I tre saggi, che non possono avere incarichi operativi nell’associazione, saranno sorteggiati tra i componenti di una lista (da sei a nove nomi) presentata dai past president insieme al Comitato etico. I saggi avranno una settimana di tempo per insediarsi e poi un paio di settimane per ricevere le candidature. Che saranno vagliate e successivamente sottoposte al voto del Consiglio generale, ma solo quelle che dimostreranno di aver almeno il 20 per cento dei consensi assembleari. Il Consiglio generale straordinario che dovrà designare il prossimo presidente della Confindustria è già stato convocato per il 17 marzo, il 28 aprile voterà la squadra (solo sei i vicepresidenti) e a maggio l’assemblea generale eleggerà il successore di Squinzi. Ed è praticamente scontato che anche questa volta, come è già accaduto nel precedente scontro tra Squinzi e Alberto Bombassei ma pure in quello tra Carlo Callieri e Antonio D’Amato, saranno almeno due a contendersi la poltrona di presidente. La conferma che in Confindustria la stagione dell’unanimismo si è chiusa.
Per ora è pronta solo la candidatura di Aurelio Regina, già presidente degli industriali di Roma e Lazio, presidente e socio di Manifattura Sigaro Toscano, vicepresidente nel primo biennio di Squinzi. La candidatura di Regina nasce proprio dalla clamorosa rottura con Squinzi: l’imprenditore-manager romano, foggiano di nascita, è stato l’unico a non essere confermato nel secondo biennio. Regina è già in campo all’insegna della “discontinuità”. Ha cercato le alleanze, nei territori e tra le categorie (starebbero con lui anche Marco Tronchetti Provera e Fedele Confalonieri), e costruito un ticket con Vincenzo Boccia, salernitano, imprenditore della grafica (Arti grafiche Boccia), presidente (assai apprezzato) del Comitato del credito, già leader della Piccola Industria. O l’uno o l’altro: uno presidente e l’altro nella squadra. Dipenderà dal consenso che ciascuno raccoglierà informalmente nel sistema prima della presentazione delle candidature. Perché Regina fa ancora fatica a sfondare in alcuni settori della Lombardia e del Veneto dove invece Boccia potrebbe trovare appoggi in particolare tra i piccoli. La stessa Emma Marcegaglia, che in questa partita gioca con diverse maglie (ex presidente, imprenditrice dell’acciaio, presidente dell’Eni) e con peso significativo, sarebbe disposta a sostenere Boccia che non avrà l’appoggio, per vecchi dissapori, del corregionale ex presidente D’Amato. Ma chi contro Regina o Boccia? Certo sarebbe anomalo che dalle regioni manifatturiere del nord, gli azionisti di riferimento della Confindustria, non arrivasse una candidatura. I tentennamenti di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, alla fine hanno complicato tutto. Rocca non si candiderà ma non sembra voglia rinunciare ad un ruolo di king maker. Si dice che nelle ultime settimane abbia sondato anche Paolo Scaroni dal quale sarebbe arrivato: “Grazie, ma ora vivo a Londra”. D’altra parte Scaroni è un manager e non un imprenditore e sembra sia la prima scelta del governo per guidare l’Ilva dell’eventuale cordata italiana con l’appoggio della Cassa depositi e prestiti. Aldo Fumagalli si è sfilato; nessuno scommetterebbe ormai un euro sul bresciano Marco Bonometti che per un po’ ha coltivato, senza nasconderla, l’ambizione di poter scendere in campo anche – è stato detto – con l’endorsement esterno di Sergio Marchionne di cui è fornitore. Carlo Pesenti era un bel nome del capitalismo italiano (sua anche la riforma del sistema) ma dopo la cessione di Italcementi ai tedeschi di HeidelbergCement si è messo fuori dai giochi. Qualcuno, tra i bergamaschi, ha pensato di sostituirlo con Carlo Mazzoleni, già presidente della locale associazione, ma non sembra aver trovato i consensi necessari. Diana Bracco poteva – secondo alcuni – essere la scelta di Giorgio Squinzi, ma non solo il presidente uscente non sembra intenzionato a interferire, c’è ancora il rischio che l’ex presidente di Expo sia rinviata a giudizio per frode fiscale. Si è pensato pure ad Andrea Moltrasio, già nella squadra di Montezemolo, che però è il presidente di Ubi. Un banchiere in Confindustria? Di sicuro per ora ci sono i due posti nella squadra dei vicepresidenti riservati alla Lombardia.
Il Veneto si è spaccato, come sempre, ma per il 14 gennaio è prevista una nuova riunione. Voleva candidarsi Alberto Baban, presidente della Piccola, e per la verità il numero uno regionale Roberto Zuccato gli aveva offerto il sostegno ma la contrarietà all’interno del Comitato della Piccola che avrebbe messo a rischio la sua stessa conferma, gli ha fatto rapidamente cambiare idea. I veneti dovranno accontentarsi di un vicepresidente e dalle parti soprattutto di Vicenza e Treviso continuare a leccarsi le ferite del patratac delle banche popolari con i vergognosi conflitti di interesse dei troppi confindustriali dentro i consigli di amministrazione.
È dall’Emilia Romagna che forse potrebbe arrivare la sorpresa. Qui sta spendendo con molta discrezione la sua influenza anche Luca Cordero di Montezemolo. Tramonta l’ipotesi di Gaetano Maccaferri, peraltro socio di Regina al Sigaro Toscano, resterebbe in piedi la possibilità di candidare Alberto Vacchi, metalmeccanico, presidente degli industriali di Bologna, e forse anche quella di Andrea Pontremoli, ex manager della Ibm, ora partner della Dallara Pontremoli. Mentre Maurizio Marchesini, presidente del regionale, pare interessato a una vicepresidenza. Fuori dai giochi Lisa Ferrarini, vice presidente di Squinzi con la delega all’Europa. Per il Piemonte dovrebbe esserci una vicepresidenza e il nome più gettonato, con delega alle relazioni industriali, è quello del presidente regionale Gianfranco Carbonato. Entro metà febbraio lo scenario sarà chiaro. Più complicato è comprendere qual è la Confindustria che serve ora agli associati. Squinzi – gli va dato atto – ha stravinto la partita sul mercato del lavoro. Il Jobs act è la riforma del mercato del lavoro confindustriale. Ha portato a casa anche il cosiddetto superammortamento (pensato più negli uffici di Assonime che in quelli di Viale dell’Astronomia) e anche lo sconto Irap sul costo del lavoro. “Il governo – ha scritto Stefano Zan sul Mulino (n.4/2015) – ha fatto proprie tutte le richieste che da oltre trent’anni avanzavano le associazioni imprenditoriali: fisco, mercato del lavoro, burocrazia, credito”. Ecco, serve un’altra Confindustria, allora, che guardi più al suo interno, che sappia promuovere l’upgrading delle sue piccole imprese (sono oltre il 90 per cento delle associate) verso quelle che qualcuno comincia a chiamare le nostre “avanguardie” capitaliste, innovative, globalizzate, patrimonializzate. Così una Confindustria davvero spoliticizzata non apparirebbe più un’eresia.
Repubblica