Francesca Bonifazi, sovaldi sale camice bianco al Sant’Orsola, assieme a un collega spagnolo e a uno tedesco ha studiato una terapia che abbatte le complicanze mortali dopo i trapianti: “Sono passate dal 68 al 32%”
BOLOGNA – “Questo è lo studio della mia vita, treat al quale lavoro da dieci anni. Ho cominciato quando un paziente mi ha detto: “Forse era meglio che mi lasciasse morire invece che operarmi”. Da oggi il modo di fare i trapianti migliora grazie a noi”. Francesca Bonifazi ha 46 anni, un marito e tre figli. Fa il medico all’Ematologia del Sant’Orsola, “un medico come tutti gli altri”, ci tiene a dire. Da ieri il suo nome appare sulla rivista New England Journal of Medicine, buy una Bibbia del settore a livello mondiale, grazie a una terapia innovativa che cambierà, e in molti casi salverà, la vita di migliaia di malati di leucemia che rischiano a causa delle complicanze dovute ai trapianti di cellule staminali.
Se la cura rischia di essere un male. Quello che la Bonifazi ha fatto assieme ai colleghi Nicolaus Kroger di Amburgo e Carlos Solanos di Valencia è ridurre il più possibile queste complicanze che possono essere mortali. “Malattie come la leucemia vengono curate con i trapianti di midollo oppure di “sangue periferico”. È il caso delle cellule staminali emopoietiche, le più diffuse” racconta la trapiantologa del policlinico bolognese. Il punto è questo: quando avviene il trapianto, nel paziente viene trasferito per via endovenosa anche il sistema immunitario del donatore, i suoi linfociti. Il paradosso è che questi linfociti da un lato combattono la leucemia del paziente, dall’altro rischiano di attaccare i suoi organi scatenando “una malattia devastante, che nei suoi effetti più acuti può portare anche alla morte e comunque a una qualità della vita orrenda”, continua l’esperta. La cura, insomma, rischia di essere allo stesso tempo la causa del male. I globuli bianchi del donatore attaccano sì le cellule “cattive”, ma rischiano di danneggiare seriamente gli organi del trapiantato con effetti drammatici. Questa patologia correlata ai trapianti si chiama “Gvhd”, appunto la “malattia dell’ospite”.
La nuova terapia per i trapianti. La Bonifazi ha contribuito a mettere in pratica una terapia che consente di abbattere questo rischio. “Durante il ciclo di chemioterapia che precede il trapianto viene iniettato nel paziente un siero. Un farmaco che “intontisce” i linfociti del donatore. In questo modo si ottengono due risultati: i linfociti combattono lo stesso la leucemia ma non attaccano gli organi sani”. Già, perché i ricercatori hanno dovuto tener conto di un altro grosso rischio. Se si “spegnesse” del tutto il sistema immunitario ricevuto dal donatore, il trapianto non servirebbe più a nulla, visto che non assolverebbe al suo compito fondamentale: distruggere le cellule “cattive”. Se, invece, i linfociti vengono usati secondo le esigenze dei medici, con un farmaco che è in grado di bilanciarne e condizionarne l’azione, i risultati sono ben altri. E si vede.
I numeri di una svolta. Su 161 pazienti sottoposti alla sperimentazione in due anni, “il rischio di Gvhd è passato dal 68,7% al 32% dei casi” dice Bonifazi. Di più. “Nei casi più gravi, che portano alla morte, questo calo è ancora più drastico: da oltre il 50% al 7% di casi di malattia”. Una svolta. Perché adesso i trapianti di questo tipo non si faranno più come prima, ma col nuovo metodo. “Saranno più sicuri, con meno effetti collaterali ma con la stessa efficacia. Da adesso cambia tutto – dice il medico, ancora incredulo – Sono orgogliosa e fiera di dire che una grossa parte di questo studio è italiana. Che 90 dei 161 pazienti oggetto della sperimentazione sono italiani, li ho coordinati io”. “Un modo efficace per aver cura dei nostri pazienti” commenta Michele Cavo, direttore dell’Ematologia del policlinico.
“Ma non possiamo fermarci”. Francesca Bonifazi è, tra le altre cose, presidente del Gitmo (Gruppo italiano per il trapianto di midollo osseo). Parla di questo lavoro tra una visita a un paziente e l’altra, ricorda ancora quando ha cominciato, quando i suoi pazienti erano disperati per la malattia che li divorava senza che lei potesse farci nulla. “Questo risultato mi ripaga di molte cose, di tanti sacrifici e di rinunce, anche a livello professionale”. Ma per lei, che fa centinaia di trapianti l’anno, il lavoro non è finito. “I miei prossimi obbiettivi? La leucemia acuta ha una sopravvivenza del 60%. Resta ancora l’altro 40…Non possiamo fermarci”.
di Rosario Di Raimondo “Repubblica”