Socrate è l’antidoto contro il male assoluto e contro la banalità del male, questo ci spiega Hannah Arendt in uno dei suoi studi filosofici, “Socrate”, in cui analizza il rapporto fra filosofia, politica e pluralità umana – dopo la catastrofe umanitaria. Per farlo chiama in causa Socrate. Terza e ultima parte di un corso americano alla Notre Dame University (USA) nel 1954, il testo è stato tradotto ora in Italia (RaffaelloCortina editore, 2015). Arendt ci fa comprendere la storia del XX secolo, quella dei regimi autoritari e della catastrofe di Auschwitz e la studia ponendo a confronto due filosofi, Socrate e Platone: ne viene fuori la figura pura del filosofo Socrate contro la figura del traditore Platone, del discepolo che ha oscurato l’immagine del suo maestro. Platone tradisce e abbandona Socrate dando origine alla filosofia come metafisica e fuga dalla politica. L’occidente si nutrirà della metafisica platonica, health e Arendt lo mette sotto inchiesta.
Nel libro è presente l’attenta e lucidissima analisi di Adriana Cavarero – da cui riprenderemo concetti e spiegazioni -. Una analisi che si cinclude con questa sintesi: “la nuova immagine dell’umano dopo la catastrofe di Auschwitz e la sua critica alla metafisica dell’Uomo, che si è resa complice della produzione totalitaria del postumano” possono essere riassunte in questa frase della stessa Arendt: “Gli uomini, non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo”.
Tutto prende origine dall’eterno conflitto fra filosofia e politica emerso a partire dal processo di Socrate. Dal conflitto tra filosofia e politica scaturisce poi il destino occidentale e un uso improprio del pensiero filosofico. Socrate aveva voluto rendere la filosofia rilevante per la polis rivendicando un ruolo nuovo e diverso per il filosofo (i greci ritenevano che la filosofia non avesse riguardo per gli affari umani e che i filosofi non valessero nulla politicamente). Durante il processo le giustificazioni del filosofo non riuscirono ad essere comprese dai giudici e dai cittadini ateniesi: fu la sconfitta della filosofia e da allora l’unica cosa che i filosofi pretesero dalla polis – che non era un posto sicuro per loro – fu essere lasciati liberi di pensare, essere lasciati soli.
La sconfitta di Socrate porta Platone e a distaccare la filosofia dalla polis, e a far allontanare così il concetto filosofico dall’attuazione politica, che come conseguenza ha avuto nei secoli il disastro nella società. L’argomento principale della difesa di Socrate di fronte ai giudici e ai cittadini, era l’aver agito nell’interesse della città. Socrate è il filosofo cittadino, è fra i cittadini e si confronta con la doxa (l’opinione) di tutti; Socrate voleva migliorare i cittadini attraverso le loro opinioni che costituivano la vita politica alla quale anche lui prendeva parte. Costringe i suoi interlocutori a darne conto e a interrogarsi e a confrontarsi senza che si cristallizzino in verità arbitrarie; egli vuole rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la verità, quella contenuta nella doxa. Il pensiero per lui consiste in una attività critica e non in un bagaglio di conoscenze cristallizzate e oggettive, ma il tribunale ateniese lo condanna proprio su questo punto: Socrate non riesce a persuaderli, e l’opinione irresponsabile degli ateniesi lo porterà alla morte. Il “So di non sapere” significa appunto che egli non aveva la verità per tutti e non conosceva la verità dell’altro, per questo cercava di fare dialogare i cittadini ateniesi e di renderli in questo modo amici, creando qualcosa in comune per formare un piccolo mondo condiviso in amicizia: l’amicizia doveva essere alla base della polis, che invece era cosparsa di invidie e competizioni. Adottava per questo l’arte della maieutica, aiutava gli altri a partorire i loro pensieri e a trovare la verità nella doxa. La maieutica era una attività politica, un dare-ricevere basato su una uguaglianza. Doxa per Socrate significa che il mondo si apre in modo diverso a ogni essere umano a seconda della posizione che ciascuno occupa in esso, e il compito del filosofo è di essere il suo “tafano”. Ma la vita insieme agli altri comincia con la vita insieme a se stessi e solo chi sa vivere con se stesso è capace di vivere con gli altri. Il sé è l’unica persona da cui non ci si può separare. Il principio guida del “conosci te stesso” è l’essere in accordo con se stessi, il pensiero di non contraddizione, la regola fondamentale del pensiero, il dialogo interiore, l’io che si interroga, si risponde, si giudica; il Due in Uno. L’attitudine al confronto interiore, alla verifica della propria condotta è l’antidoto più prezioso contro la banalità del male. Socrate scopre così la coscienza: “sii come vorresti apparire agli altri”; il dialogo interiore, nella sfera solitaria ma non straniante, è condizione basilare del pensiero e la solitudine è la condizione basilare per il miglior funzionamento della polis. È la coscienza antiautoritaria e anticonformista perché si interroga e mette in discussione ogni cliché. L’io si doppia in imputato e testimone nel pubblico di sé stesso. Socrate si pone dunque contro il male radicale e contro la banalità del male. Lo stato da cui scaturisce la filosofia è la meraviglia, di cui neanche la scienza può fare a meno; è lo stato in cui il filosofo si pone delle domande. Il pathos della meraviglia è ciò che distingue il filosofo dal comune cittadino, contro il dogmatismo di semplici possessori di opinioni.
Platone contrappone la verità all’opinione arrivando alla conclusione più antisocratica: egli non accetterà la morte ingiusta del filosofo, denuncerà la doxa e concepirà la verità come l’esatto opposto dell’opinione. Socrate sottopone la propria doxa alle opinioni irresponsabili degli ateniesi, Platone disprezzerà la pluralità delle doxai e introdurrà criteri assoluti nella sfera degli affari umani; come scritto ne “La Repubblica”, le idee sono principi saldi e oggettivi per regolare la politica e l’idea del Bene, il principio dell’ordine delle idee, diventa il criterio su cui il filosofo costruisce l’ordine della polis ideale. Il regime eterno e immobile della verità, la tirannia del vero che predica la legge dell’Uno e si impone all’ambito plurale della politica come spazio dell’interagire. La solitudine contro la pluralità umana – condizione invece ontologica della politica per Socrate.
Platone lascia il mondo reale degli uomini per abitare nell’altro mondo e modellare su di esso la kallipolis. L’uscita dal mondo reale è data dall’esperienza particolare dei metafisici: la meraviglia di fronte a ciò che è, una meraviglia che deve pur tradursi in parole, ma la verità ultima è per Platone al di là delle parole. Per Arendt è qui che inizia la catastrofe. Il pensiero noetico come contemplazione silenziosa delle idee, come sapere di un cosmo ordinato, si traduce per Arendt in una vera e propria fuga dalla politica e soppianta l’attività dialogica di Socrate. Verità e unità soppiantano la pluralità del mondo reale. Platone ha principalmente questa colpa, l’aver sacrificato il mondo plurale all’effetto totalizzante dell’Uno così come l’effetto totalitario ha fatto sparire la pluralità degli uomini in un unico uomo. La coincidenza di essere, verità, unità è il dominio assoluto. Ne “la Repubblica” lo stato migliore è costruito a immagine del singolo uomo, inteso come principio dell’uno e indiviso e negazione della pluralità presente nella realtà; uno e tutto, predica la legge dell’identico ed elimina il registro discorsivo, le parole e l’azione. Ecco perché Platone prolunga l’esperienza non discorsiva della meraviglia oltre ogni limite, meraviglia che sta all’inizio e alla fine della filosofia. Identifica l’attività del pensiero con l’attimo traumatico che separa il filosofo in stato di shock dal mondo reale e dalla presenza dei suoi simili. La solitudine del pensare, l’isolamento, mondo fittizio dominato dall’Uno è il supremo oggetto di conoscenza, al contrario della pluralità interattiva che caratterizza Socrate.
L’unica difficoltà di Arendt sta nel rapporto tra pensiero e azione. Per lei in termini di pluralità umana ci sono due modi di essere insieme: l’essere insieme con gli altri uomini e con i propri pari da cui scaturisce l’azione, e l’essere insieme con il proprio sé, il pensare. Il punto debole di Arendt: il passaggio dall’esterno all’interno, dal piano pubblico dell’apparire, garantito da una molteplicità di prospettive diverse, al piano interno del non apparire che si svolge dentro il soggetto, ed è invisibile. Ma la dualità interna è per Arendt sintomo della pluralità esterna del mondo comune, e sembra che il pensiero duale rifletta e si faccia indizio di quella realtà plurale concernente l’azione, che funge da presupposto o fondamento.