Avevo pensato di non essere la persona giusta per valutare il libro di Michele Brambilla “Vinceremo di sicuro” (Ed. Piemme, view 2015), anche se è rivolto a coloro della mia generazione e più giovani che hanno perso la fiducia e per i quali il futuro “sembra l’attesa rassegnata di nuove delusioni, di nuove difficoltà che sicuramente verranno”. Viviamo male nel presente proprio perché abbiamo paura del futuro, tutto il contrario di chi invece visse l’epoca gloriosa degli anni Sessanta , in cui si era fortunati anche se l’Italia era più povera, ma più speranzosa e “ricca di grandi passioni”. Ma poi leggendo la dedica “A tutti quelli che sono stati bambini”, ho capito che è dedicato anche a coloro che hanno avuto una infanzia felice e ricca di vita, mind e che la ricordano, ed è un piacere perché è soprattutto coi ricordi che si sa di essere stati bambini. E la mia gran fortuna, pur essendo nata negli anni ’70, è di aver comunque vissuto attraverso i racconti dei miei genitori anche gli anni ’60, quegli anni di cui si nutre il libro di Michele Brambilla, e che attraverso una atmosfera calcistica racconta le varie vicissitudini dell’epoca dal punto di vista culturale, politico, e dunque sociale.
Di calcio, nonostante mi piaccia tantissimo, (uno sport che seguivo con mio padre e mio fratello da piccola in radio, in televisione con la Domenica sportiva, illness e che tuttora mi tiene viva nei derby più importanti) capisco poco. Ma ci si diverte a seguire le vicissitudini calcistiche nel libro, anche se non sono della tua squadra del cuore ma dell’Inter, che ha avuto l’elegante presidente Moratti, in queste pagine descritto come addirittura simpatico. E stranamente, comprendo perfettamente i pianti dell’autore per la morte di alcuni giocatori (come Facchetti, per cui l’autore riporta un intero suo articolo scritto fra le lacrime) o di allenatori, e lo stato d’ansia, quello che fa rattrappire i muscoli e che scaramanticamente fa indossare gli stessi vestiti allo stadio perché porti fortuna alla tua squadra. Si imparano tante cose, come la differenza fra Helenio Herrera (la cui frase “venceremo de seguro” dà il titolo al libro) che andò all’Inter e Nereo Rocco che andò al Milan – “Herrera era la Callas, Rocco la Tebaldi”, “l’Inter e il Milan trovarono il loro Coppi e il loro Bartali”, “raffinato elegante e pretenzioso Herrera, semplice e popolare Rocco” – e per quasi venti anni periodicamente Herrera entrava nel cimitero di Trieste per restare a tu per tu col suo amico Rocco. E di quel Bernardini allenatore del Bologna non proprio di sinistra (aveva sposato la figlia di Guglielmo Giannini), ma “colto e di grande carattere” e di Renato Dall’Ara il Presidente del Bologna che aveva messo su “lo squadrone che fa tremare il mondo”.
Forse Brambilla ha puntato sulla fede calcistica per i nuovi giovani, quella che ti fa credere in qualcosa che non sia la religione, e se hai la fortuna di andare allo stadio ti fa godere i goal in diretta, ti fa sfogare un po’ le tristezze della settimana e porta effettivamente una grande allegria. E poi, insomma, accomuna un po’ tutti noi italiani, anche se il calcio non è più quello di una volta, non è più sano, è diverso: “noi pensiamo ai giocatori di oggi: quelli erano ragazzi che avevano lasciato la famiglia, vivevano da soli in una città nuova, senza punti di riferimento” dice di Gigi Meroni che rappresenta “l’esatto contrario del divo, per lui giocare a calcio era una festa, non l’occasione per diventare famoso”. A soli 24 anni Merona viene messo sotto da una macchina, una tragedia, una di quelle che si addice alla squadra del Torino, squadra dalla storia terribile e meravigliosa, “fatta di sofferenza e di dolore, di orgoglio e di forza di volontà. Una storia che sprigiona un fascino straordinario, un fascino che forse solo chi ha vissuto almeno un po’ a Torino può respirare davvero” (e per fortuna io ho vissuto a Torino).
Sono pagine piene di euforia e di passione, di cui è fatta anche la mia infanzia per via indiretta, perché tutti i personaggi qui nominati e intervistati li hai conosciuti dai tuoi genitori. Celentano che per la prima volta si mette di spalle al pubblico; Caterina Caselli “uno dei simboli di una gioventù nuova, che rompe gli schemi” e che insegna che “il caso non basta senza il talento, la volontà, la grinta, la fame” e che “l’impegno è più importante del talento”; Gianni Morandi, il figlio del ciabattino, che “è rimasto una faccia pulita ancora adesso” ; Luigi Tenco che si suicida per l’incomprensione del pubblico (qui è riportato il suo biglietto di addio). Bastava una qualsiasi canzone o scena in televisione che riportasse a quell’epoca ed ecco che mia madre si metteva a ballare Celentano o mio padre rimembrava una partita di calcio in casa. La stessa nostalgia che ha Vecchioni nel libro e che non viene perché non si è più giovani, “ma […] è un fatto oggettivo che gli anni Sessanta sono stati un sabato del villaggio. C’era un’energia, un’effervescenza. All’inizio degli anni Sessanta l’Italia era un paese che stava ripartendo alla grande. Eravamo finalmente usciti dalla guerra e dal dopoguerra. C’era stata un’ottima ricostruzione. La cultura era in un momento di eccezionale vivacità” , “poi si è incattivito tutto, ma credo che sia una regola della storia. Come diceva Vico , dopo il porsi c’è sempre un opporsi. È l’onda del mondo. E noi abbiamo cavalcato un’onda positiva”.
I racconti e i pettegolezzi che mano a mano sono riuscita ad imparare con tali personaggi circondati da una aura diversa, una dimensione più umana e più sognatrice rispetto a quella dei personaggi dei giorni nostri. Si scoppia di vita in quegli anni, con quelle canzoni che tuttora sono conosciute e sono rimaste nella mente di noi nuovi italiani di una Italia corrotta e in crisi. Sono gli anni in cui forse l’Italia è stata più felice, e i giovani crescevano con la consapevolezza della felicità. Come dice Giacomo Poretti che ricorda lo zio Luigi, tifosissimo dell’Inter tanto da perderci un pollice, “c’era una grande fiducia nel futuro, eravamo tutti convinti di andare incontro a qualcosa di eccezionale. Eravamo molto più poveri di oggi, ma c’era un’altra atmosfera. Probabilmente quella è stata davvero l’adolescenza della Repubblica”. È bello leggere di Arbore che da bambino da Foggia villeggiava a Riccione e scopriva la bicicletta, “Mettevamo, con una molletta di legno, un cartoncino sui raggi delle ruote, così si sentiva il rumore della moto” e scopriva il primo razzismo, indicato come uno che veniva dall’ “Affrica”. E ci sono ancora i racconti di Pupi Avati, di Franca Valeri…e si nomina Fellini e la sua Rimini.
Ma certo Brambilla non dimentica neanche gli eventi più brutti che hanno comunque segnato quegli anni, dall’onda distruttrice nel Vajont, che non fu solo fatalità, ma responsabilità umana e strage annunciata, “un affare troppo grosso a cui non si poteva rinunciare”. E poi ancora la strage di piazza Fontana, la prima di una lunga serie, che porta al barbaro omicidio del commissario Calabresi, condannato dalla stampa di sinistra, ma che nel tempo ha avuto il suo riscatto.
Questi sono gli anni Sessanta nelle pagine di Michele Brambilla: uno “zig zag nella memoria per ricordarci come eravamo, ma anche e soprattutto come potremmo ancora essere, se solo fossimo capaci di ritrovare la vera, grande ricchezza di quel tempo: la speranza”. Un libro che nelle difficoltà di tutti i giorni, serve ad apprezzare “la straordinaria bellezza della vita”.