(Alberto Vannucci, medicine La Stampa) È possibile “guarire” dalla corruzione? Il quadro di malaffare emerso dalle cronache degli ultimi giorni è avvilente. A Palermo un imprenditore compila un vero e proprio “libro mastro” con la contabilità meticolosa delle bustarelle versate a un’ampia platea di funzionari pubblici. A Napoli il cibo scadente delle mense scolastiche è il frutto avvelenato delle mazzette pagate da chi si era aggiudicato l’appalto. Negli uffici fiorentini e romani dell’Anas la “dama nera” e altri dirigenti intascano un pedaggio per ogni pratica transitata nei loro uffici, decease mettendo in riga chiunque si azzardi a pagare con “ciliegie smozzicate”, ossia tangenti autoridotte.
A Milano finiscono in carcere prima due ex dirigenti comunali che nascondono in casa un tesoretto di decine di lingotti d’oro, poi il vicepresidente della Regione. Intanto prende avvio il processo contro la prima organizzazione mafiosa “a chilometro zero”, una mafia endogena sorta a Roma per disciplinare il circuito di mazzette versate da cooperative sociali nella gestione dell’emergenza immigrati e nella manutenzione del verde pubblico. Ma anche la realizzazione delle principali opere pubbliche e manifestazioni internazionali, dal Mose all’Expo, è stata inquinata da un giro di bustarelle da capogiro.
Ogni emergenza nazionale, drammatica come un terremoto o costruita a tavolino come il ritardo nell’approntare una manifestazione sportiva, è stata occasione per soddisfare gli appetiti della “cricca” della protezione civile. Del resto cos’è stata l’inchiesta “mani pulite” se non la rivelatrice del più esteso e dirompente scenario di corruzione che mai abbia investito un paese democratico avanzato?
Non c’è da sorprendersi che la reputazione dell’Italia sia ai minimi storici. Nell’indice di percezione della corruzione elaborato da Transparency International, che misura l’opinione di osservatori ed esperti internazionali, il nostro Paese si colloca nel 2014 all’ultimo posto nell’Unione europea, affiancato a Bulgaria, Grecia, Romania. Eppure la “malattia della corruzione, dell’assuefazione alle bustarelle” – come l’ha definita Papa Francesco – non è incurabile. Non esiste alcuna predisposizione genetica alla corruzione, che anche nelle sue manifestazioni più estreme è il prodotto finale di un progressivo stratificarsi di cattive abitudini, prassi sbagliate, modelli culturali distorti, sfiducia.
In fondo, per quanto si moltiplichino i sintomi di un malaffare diffuso, in tanti si ostinano a contrapporvisi, sicuramente la gran parte dei cittadini, degli imprenditori, degli amministratori onesti, talvolta mettendo persino a repentaglio le speranze di carriera o la propria incolumità personale. Persino il moltiplicarsi degli scandali, a ben guardare, offre un segnale confortante della persistenza degli “anticorpi” istituzionali assicurati da una magistratura attiva e indipendente.
Si trovano non troppo distanti dal Mediterraneo esempi virtuosi di stati che proprio come l’Italia di oggi hanno conosciuto una pratica capillare della corruzione, ma sono stati in grado di trovare una “cura” e oggi si collocano ai vertici delle graduatorie sull’integrità. I paesi Scandinavi, ad esempio, fin dalla seconda metà del 1800 hanno moltiplicato gli investimenti nell’istruzione pubblica e rafforzato i canali di partecipazione dal basso alla vita della comunità, favorendo così il consolidarsi di una cittadinanza attiva e partecipe, capace di esercitare un efficace controllo. È stato un processo lento e faticoso, ma alla lunga capace di creare un tessuto culturale di valori refrattario al formarsi di sacche di corruzione sistemica, come quelle rivelate oggi dalle squallide cronache delle nostre latitudini. È possibile imitare in Italia questi modelli positivi?
Certamente sì, ma occorre accrescere la conoscenza di un fenomeno che, come la corruzione, tende a svilupparsi in modo sotterraneo, e rafforzare la consapevolezza e la sensibilità dei cittadini, riattivando i circuiti di partecipazione democratica che la stessa corruzione tende a inceppare, alimentando sterile malcontento o rassegnazione.
Il malaffare in Italia non è la mera risultante di atti individuali, quanto una vera e propria “corruzione organizzata”, entro la quale vigono regole non scritte e meccanismi di coordinamento che ne assicurano il rispetto tra i molti partecipanti, rafforzata spesso dalla presenza di una sorta di “cabina di regia”, ossia di un garante specializzato nell’erogare o minacciare sanzioni agli inadempienti, assicurando ordine, prevedibilità, stabilità ai rapporti tra corrotti e corruttori. Questa era la funzione dei boss di Mafia capitale, o della “dama nera”, o di alti dirigenti ministeriali nelle vicende ricordate all’inizio. Difficile immaginare che queste sacche di degenerazione dell’attività amministrativa si sciolgano miracolosamente in virtù delle doti taumaturgiche dell’Autorità anticorruzione, nonostante gli sforzi messi in campo con le limitate risorse a disposizione. Proprio l’Anac ha sottolineato di recente come il retaggio di una “cultura dell’adempimento” abbia impedito ai piani di prevenzione della corruzione di produrre effetti significativi negli enti pubblici, trasformandoli nell’ennesima incombenza burocratica.
Per spezzare la rete di connivenze e protezioni che nell’amministrazione pubblica e nella politica sostengono la corruzione sistemica occorrere allora attuare un cambiamento “rivoluzionario” del modello di selezione e promozione del personale imperante, dominato da una cultura giuridica formalistica e dal servilismo, premiare i meriti gestionali e non le opache “capacità relazionali” se non il potere di ricatto, cogliere per tempo le anomalie, e naturalmente incrementare trasparenza e responsabilità dei decisori pubblici. Purtroppo i segnali che provengono dalla sfera politica sono ambigui e spesso contraddittori. Basti pensare all’inadeguatezza delle nuove norme sul falso in bilancio e sui reati fiscali o alla discutibile prospettiva di innalzare la soglia di utilizzo del contante, misure che rischiano di estendere i margini di impunità per attività criminali dall’altissimo costo sociale, spesso complementari alla corruzione.