di Pierluigi Magnaschi (direttore di “Italia Oggi”)
Nella politica italiana, sale essendo a corto di argomenti più consistenti, si va per mode. Adesso, ad esempio, tutti si dicono convinti che il metodo migliore per selezionare la classe dirigente nei partiti politici siano le elezioni primarie. Queste ultime sono presentate, da tutti ripeto, come un metodo certo, inossidabile, risolutivo e incontrovertibile che fa piazza pulita delle clientele (Mastro Lindo, da questo punto di vista, tadalafil fa ridere). Le primarie inoltre, stando a sentire tutti coloro che ne sono entusiasti, restituiscono agli elettori il diritto di scegliere il loro candidato anzichè farselo scodellare dai capataz delle sezioni (che non ci sono più; e ,quando ci sono, non c’è dentro nessuno) . Che però lo strumento delle primarie non sia sempre il più efficace, lo dimostra, in maniera plateale, la vicenda del sindaco di Roma, Ignazio Marino, che, proprio ieri, ha finalmente deciso di dimettersi dalla carica di primo cittadino (sia pure con una umoristica clausola di ripensamento di venti giorni).
La candidatura di Marino a sindaco della Capitale fu il risultato di primarie, non solo combattute accanitamente fra candidati di grande richiamo, ma anche poi lodate ogni misura da tutti agli alti papaveri del Pd. Pier Luigi Bersani, ad esempio, disse, commosso, che, con quelle primarie, aveva avuto la meglio “l’uomo giusto, nel momento giusto e per l’incarico giusto”. Che poi era Ignazio Marino. “Bene, bravo!” avrebbe detto Ettore Petrolini, parlando col naso, come quando recitava la parte Gastone. A dimostrazione che le primarie, alle volte, possono offrire risultati deludenti sul piano dell’accertamento della meritocrazia, resta il fatto che l’oggi imbarazzante Marino, vinse quelle primarie in maniera travolgente, con un risultato mozzafiato, di tipo bulgaro, si direbbe.
Marino infatti prese il 51 per cento dei voti, sgominando tutti i suoi avversari. Il suo immediato antagonista, David Sassoli, che si piazzò secondo, era, col suo 28%, al disotto di ben 23 punti percentuali. E ciò avvenne anche se Sassoli era un mezzobusto televisivo allora molto noto e avesse anche alle spalle una legislatura più che dignitosa all’europarlamento. Il terzo candidato Pd era Paolo Gentiloni, attuale ministro degli esteri, politico di lunga esperienza e di grande notorietà a Roma ma che uscì stracciato da queste elezioni con un miserrimo 14 per cento.
A conclusione delle primarie, Marino (che non aveva la barba; è dopo, che ha cercato di nascondersi dietro i suoi peli) salì, in maniche di camicia e precariamente su una sedia e improvvisando (o, almeno, così parve), disse testualmente: “A fine maggio dobbiamo liberare il Campidoglio da una politica oscura. Noi cambieremo tutto”. Queste parole, confrontate con il suo successivo e delirante scampolo di sindacatura, dimostrano che per Marino il dire ed il fare sono delle entità fra di loro incommensurabili e che, in ogni caso, non si incontrano mai.
Sempre in quell’occasione arrivò nella sezione del Pd romano dove i militanti seguivano gli spogli, anche il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, a bordo di una Vespa scassata (altro che macchina di servizio, ragazzi! E’ il nuovo che avanza, perbacco) con il casco precariamente messo sulla testa, a mo’ di pentola rovesciata, che gridò entusiasta, davanti alle telecamere: “Daje, Ingazio!”. Col senno di poi, si è capito che, in effetti, Marino aveva bisogno di incoraggiamenti che, comunque non sono bastati.
Le primarie sono, nel modo in cui sono fatte in Italia, e per tutti i partiti che le adottano, degli strumenti di manipolazione. Esse sono proposte e spinte da partiti accecati, che non capiscono che esse autocertificano l’inidoneità della classe dirigente di un partito nel fare delle scelte consapevoli ed espressive dell’interesse dei votanti e del Paese. Le primarie, certo, hanno avuto un occasionale merito storico perché sono servite a svuotare della classe dirigente ex comunista, il partito nel quale essa un tempo era egemone. La prima botta a questo potere superato ma anche incistato e perciò roccioso, gliela diede Romano Prodi con il suo Ulivo. La seconda è venuta da Renzi. Senza le primarie, però, la morsa organizzativamente leninista degli ex giovani comunisti (nati e restati tali) che erano stati allevati alle Frattocchie, sarebbe continuata ancora a lungo per mancanza di alternative praticabili.
Ma adesso che è avvenuto questo ricambio di sangue (altrimenti impossibile, ripeto) sarebbe opportuno che la dirigenza del partito (proprio perché è una dirigenza; o dovrebbe esserla) si assumesse l’onere di scegliere direttamente i propri candidati, ben sapendo che questa loro scelta non è priva di sanzione democratica perché, se scelgono un candidato inidoneo, l’elettorato può bocciarlo, nella sede più opportuna, cioè le elezioni dove, tra l’altro, non è possibile fare brogli.