
Nel panorama politico italiano, sembra che, quando mancano argomenti più sostanziali, ci si affidi alle mode. Attualmente, ad esempio, è diffuso l’orientamento che considera le elezioni primarie come il metodo migliore per selezionare i leader all’interno dei partiti politici. Queste elezioni sono presentate come un sistema infallibile e risolutivo che elimina il clientelismo (in questo contesto, Mastro Lindo sarebbe ridicolo). Inoltre, gli entusiasti affermano che le primarie restituiscono agli elettori il diritto di scegliere il proprio candidato, anziché ricevere una scelta imposta dai dirigenti delle sezioni (che di fatto non esistono più; e quando ci sono, spesso non contano nulla). Tuttavia, la vicenda del sindaco di Roma, Ignazio Marino, dimostra chiaramente che questo strumento non sempre offre i risultati sperati. Ieri, Marino ha finalmente annunciato le sue dimissioni dalla carica di primo cittadino, anche se ha incluso una bizzarra clausola di ripensamento di venti giorni.
La candidatura di Marino a sindaco della Capitale nacque da primarie non solo combattute in modo serrato tra candidati carismatici, ma anche esaltate da esponenti di alto livello del Partito Democratico. Pier Luigi Bersani, ad esempio, esclamò, commosso, che le primarie avevano portato “l’uomo giusto, nel momento giusto e per l’incarico giusto”, riferendosi ovviamente a Ignazio Marino. “Bene, bravo!”, avrebbe commentato Ettore Petrolini, interpretando il suo personaggio. Questa storia evidenzia come, talvolta, le primarie possano produrre risultati deludenti in termini di meritocrazia, dato che il Marino, oggi in un imbarazzante declino, ottenne un trionfo schiacciante in quelle primarie, con un risultato prodigioso, di tipo bulgaro.
Marino infatti conseguì il 51% dei voti, battendo gli avversari in modo netto. Il suo immediato concorrente, David Sassoli, si classifcò al secondo posto con un 28%, con una differenza di ben 23 punti percentuali. Questo accadde nonostante Sassoli fosse un volto televisivo molto conosciuto e avesse una carriera all’Europarlamento di tutto rispetto. Il terzo candidato del PD era Paolo Gentiloni, attuale ministro degli esteri, noto e rispettato a Roma, ma uscì dal confronto con un magro 14%.
Alla fine delle primarie, Marino (che allora non portava barba; la lasciò crescere successivamente, forse per celarsi) salì su una sedia indossando una camicia e improvvisò (o perlomeno, così sembrò), dichiarando: “A fine maggio dobbiamo liberare il Campidoglio da una politica oscura. Noi cambieremo tutto”. Queste affermazioni, confrontate con l’andamento della sua successiva gestione come sindaco, mettono in luce come per Marino le parole e le azioni spesso non si allineano mai.
Nel corso di quell’evento, era presente anche Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, che, giunto su una vecchia Vespa (un chiaro contrasto con le macchine ufficiali!), con un casco messo in modo approssimativo, esclamò davanti alle telecamere: “Daje, Ignazio!”. Con il senno di poi, è evidente che Marino avesse bisogno di supporto, ma evidentemente non bastò.
Le primarie, così come sono strutturate oggi in Italia, e per tutti i soggetti coinvolti, pongono interrogativi significativi sulla loro effettiva capacità di portare alla luce una vera meritocrazia, un aspetto che meriterebbe una riflessione più approfondita da parte di esperti e cittadini.

I partiti che adottano strumenti di manipolazione si trovano a dover affrontare le conseguenze delle loro scelte. Queste pratiche sono spesso propagandate da partiti che sembrano accecati, incapaci di rendersi conto che in questo modo autocertificano l’inadeguatezza della loro classe dirigente nel prendere decisioni che riflettano realmente gli interessi degli elettori e del Paese. È vero, le primarie hanno avuto un lodevole valore storico, in quanto hanno contribuito a marginalizzare l’élite ex comunista, un tempo dominante in questi partiti. La prima spinta a questo potere, ormai superato ma ancorato, fu impartita da Romano Prodi con il suo progetto dell’Ulivo. La seconda svolta significativa è stata operata da Matteo Renzi.
Senza l’implementazione delle primarie, l’influenza organizzativa di stampo leninista da parte degli ex giovani comunisti, formatisi e rimasti tali alle Frattocchie, sarebbe continuata ancora a lungo, a causa della mancanza di alternative praticabili. Tuttavia, ora che questo ricambio di generazioni è avvenuto, sarebbe opportuno che la dirigenza del partito, essendo esse responsabili, assumesse il compito di scegliere direttamente i propri candidati. Deve essere chiaro che questa scelta non è esente da un controllo democratico: se dovessero optare per un candidato inadeguato, l’elettorato ha la possibilità di rigettarlo nel contesto più appropriato, ovvero durante le elezioni — un momento in cui, per altro, non ci sono opportunità di brogli.