di
MATTIA FELTRI
(La Stampa 11/10/2015)
Chissà se registi o romanzieri o saggisti decideranno mai di raccontare qualcosa di diverso dalla grande Roma, sale della mafia o dell’arte capitale, nella bellezza e nella bruttezza, ma la piccola e misera Roma quotidiana. Se fosse un film avremmo pronta la colonna sonora: mille colpi di clacson. Un clacson per la strada ostruita da soste in doppia o terza fila, un clacson perché c’è coda, un clacson per la lentezza di quello davanti, un clacson per la velocità di quello di fianco, un clacson per l’uscita dal parcheggio bloccata, un clacson per salutare la bella, una sinfonia mononota per la babilonia totale. Ogni strombazzata è una rivendicazione di diritto e una dichiarazione di guerra. Si strombazza perché i pedoni attraversano col rosso, o dove gli pare, i ciclisti stanno in mezzo alla carreggiata, i motociclisti sorpassano a destra e a sinistra con pretese millimetriche, è il loro diritto e la loro guerra. A Roma guidiamo così: si va dentro e si guarda avanti, una pura prova di forza. Quando ci manca l’energia soccombiamo, quella per riprenderci il posto in fila al supermercato o alla cassa del cinema perché ce n’è sempre uno che fa il vago e passa, l’energia di protestare perché immigrati e indigeni abbandonano bottiglie di birra, intere o in frantumi, sulle scalette sotto casa.
Questa poi la chiamiamo emergenza rifiuti. È un buon argomento di conversazione: Roma dove nessuno pulisce. Se qualcuno ci pedinasse ci vedrebbe gettare al suolo mozziconi di sigarette, scontrini, fazzoletti del bar, confezioni di cibo, volantini, carte di caramella, una profusione a piene mani di cui facciamo lezione ai nostri figli fin dalla più tenera età, «butta per terra» è l’esortazione di ogni genitore. Dietro un angolo c’è il resto del pic-nic, i cartoni della pizza, le lattine di Coca, i sacchetti di patatine, i turisti ne traggono lezione e si comportano di conseguenza, come noi sono dediti all’indifferenziata, se usano i bidoni è per infilare il gelato in quello della carta e l’ombrello rotto in quello del vetro. Lì attorno noialtri facciamo allestimenti di arte moderna: a Roma ci liberiamo di ogni vecchio ingombro depositandolo ai piedi dei cassonetti, si sono visti stendini, televisori, scaffali, scheletri d’infisso, stampanti, lampadari, abat-jour, sedie, specchi, guardaroba. Qualcuno li porterà via, la nettezza urbana, i senza tetto. Se restano lì sarà senz’altro colpa della casta e dei politici che rubano. Scuote il capo per indignazione ogni buon artigiano ci venga in casa, ogni parrucchiere, ogni barista, ogni componente di quell’immenso popolo indisposto alla ricevuta fiscale perché sicuro di occupare una posizione di legittima difesa.
Ogni nostra piccola ruberia dovrebbe essere giustificata dalle grandi ruberie altrui. E allora Roma è la carcassa su cui si accanisce ogni animale, quello più forte e più grosso mangia per primo e mangia parecchio, l’animale più debole mangia dopo e quel che resta, ma mangia, e in una poco entusiasmante condizione parassitaria. L’apologo perfetto è quello dell’Atac, l’azienda di trasporti in perenne passivo per gli sprechi e le stecche dei capi, con poco più di novemila dipendenti di cui ogni giorno ne restano a casa in media, per permesso o indisposizioni, che si acuiscono a fine o inizio settimana, mille e quattrocento, oltre il quindici per cento. Lo scorso capodanno, fra il 30 e il 31 dicembre, cadde malato il trenta per cento degli autisti di autobus in servizio. Anche in quei due giorni, come in ogni altro giorno dell’anno, i viaggiatori senza biglietto erano in una percentuale stimata nel quaranta per cento. Siamo tutti aggrappati a questa vecchia e generosa lupa per ricavarne una poppata, oggi e poi domani e dopodomani.
I sessantacinquemila dipendenti del comune, e domani per statistica ne mancheranno novemila, saranno alla sportello o in ufficio svogliati, disillusi, stanchi, frustrati e scontrosi e tutti ci arrangeremo con o senza di loro. Roma è una città in cui il sindaco Ignazio Marino ha trovato 960 milioni di euro in multe stradali mai riscosse; significa che ognuno di noi, compresi i neonati, poiché Roma ha tre milioni di abitanti, aveva un debito in sole contravvenzioni di 320 euro; Marino si è arreso: quasi ottocento milioni sono stati dichiarati «di dubbia esigibilità». E poi ci sono le tasse sulla casa nella vecchia e nella nuova formulazione, le tasse sui rifiuti, le rette delle mense scolastiche, per il debito spaventoso e imbarazzante di due miliardi e quattrocento milioni di euro che noi abitanti di Roma dobbiamo al nostro comune, quasi mille euro a testa. Si è stabilito che di quella cifra se ne potrà forse recuperare un terzo, ottocento milioni. Potremmo fare sindaco anche Charles De Gaulle, e non ne ricaveremmo nulla.