In occasione del suo addio al Giornale dopo 769 interviste
di Riccardo Ruggeri, Italia Oggi
Il mio amico e direttore Pierluigi Magnaschi un giorno del gennaio 2011 mi disse che Stefano Lorenzetto voleva intervistarmi per la sua rubrica domenicale «Tipi italiani» sul Giornale. Lorenzetto venne a Torino, buy ci vedemmo all’hotel Vittoria. La prima ora e mezzo dell’intervista fu imbarazzante.
Capivo che non credeva a quasi nulla di quello che gli dicevo, mi poneva continui trabocchetti, mi bacchettava quando sbagliavo (non ricordavo che la maggiore età negli anni Cinquanta fosse fissata a 21 anni e non a 18 come sostenevo io). Non era un’intervista, ma un interrogatorio, lui aveva il piglio del pubblico ministero; anni prima, per Mani pulite, ero stato interrogato da Antonio Di Pietro, fu una passeggiata rispetto a Lorenzetto.
Improvvisamente, cambiò atteggiamento, capii che ora mi credeva, mi sciolsi, la storia divenne più fluida, non feci più errori. Sentivo che saremmo diventati amici. Così come a Di Pietro, sapendolo juventino, non dissi che ero del Toro (as sa mai), a lui non dissi che lo leggevo ogni domenica, non volevo apparire uno che si arruffianava. Ora lo posso dire. Quando Lorenzetto cominciò «Tipi italiani», vivevo a Londra; al rientro in Italia, il mio autista mi consegnava il Giornale della domenica precedente, mai mi persi un ritratto: consideravo (e considero) Lorenzetto un genio del giornalismo.
L’intervista uscì la domenica 6 febbraio, due intere pagine anziché una, un privilegio raro. Ero a pranzo all’Antica corona reale di Cervere (Cuneo), quando ricevetti una lunga mail di Carlo De Benedetti (nel colloquio con Lorenzetto avevo anche parlato del periodo in cui lavorai con lui nei famosi 100 giorni che rimase in Fiat): si complimentava con me, confermava la mia versione sulla sua uscita, ma la raccontava in modo dettagliatissimo e molto diverso da quello apparso sui giornali; io, che avevo vissuto in diretta la vicenda, concordavo con lui e non con la versione ufficiale della Fiat.
Dopo fu un susseguirsi di mail, lettere, telefonate, inviti alla radio (accettati), alla televisione (rifiutati): insomma da vecchio ero diventato celebre grazie a Stefano Lorenzetto, celebrità in seguito ulteriormente rafforzata da un’intervista di Nicola Porro a Virus. Capii che oggi non conta l’execution ma lo storytelling. Varrà anche nel giornalismo?
Con Stefano diventammo grandi amici, siamo costantemente «connessi», gli voglio bene. Quando seppi che usciva dal Giornale, gli chiesi d’intervistarlo. Lui, credo per amicizia, accettò, sia pure con riluttanza. Adesso l’intervistatore sono io. Non essendo uno sciocco, so che non posso intervistare il Principe degli intervistatori con le tecniche giornalistiche, che lui possiede in modo superlativo e io no, per cui ho adottato un’altra strategia. Uso la tecnica che avevo messo a punto per selezionare l’alto management, un mix di domande che stimolano confessioni, sfide intellettuali, psicologia, e, perché no, nascondono anche una trappola. Funzionerà con un giornalista rotto a ogni temperie come Stefano? Solo i lettori potranno giudicarlo. Perché 28 domande? La filastrocca «Di 28 ce n’è uno» fu una delle prime che imparai da piccolo, così il 28 mi è diventato caro.
Domanda. Sei veramente come appari, un uomo umile, come lo sono tutti i grandi, o sei quello che a Torino chiamiamo, in modo affettuoso, un «furb da pais»?
Risposta. In 40 anni di professione non ho mai conosciuto un giornalista umile. Figurati se lo sono io. Narciso si specchiava nell’acqua, noi nella firma, e soprattutto nello schermo del televisore. Però ho cercato per tutta la vita che a questa mancanza di umiltà corrispondesse un doverismo esasperato, questo sì, dimodoché la virtù sopravanzasse il difetto, di per sé intollerabile.
D. Grazie, ma della tua risposta non so che farmene, per me sei un uomo umile, quindi un grande, come uomo e come giornalista. Ti chiedo: a volte ti vergogni di far parte di questa categoria?
R. A volte? Tutte le mattine. Anzi, tutte le sere, perché soltanto dopo le 21 mi rassegno a sfogliare la mazzetta dei quotidiani e dei settimanali, rigurgitanti di vacuità, déjà vu, strafalcioni, servilismi. La prendo come l’ultima fatica della giornata, quella che mi provoca più sofferenza. Pensa che negli anni Ottanta, quando abitavo al primo piano in un condominio, l’edicolante Cesare Ongaro mi lanciava il rotolo dei giornali direttamente sul poggiolo alle 5 di mattina. Alle 7 avresti potuto interrogarmi su qualsiasi argomento di giornata e ti avrei risposto a tono. Oggi invece sfoglio dopo cena, chessò, Il Messaggero del 21 agosto per scoprirvi, in un pezzo d’apertura, che il clan dei Casamonica controlla il quadrante Est di Roma, mentre è vero esattamente il contrario visto che estende il suo potere dalla Città eterna al litorale, e che la chiesa del famoso funerale si trova nella periferia Nord, vicino a Cinecittà, che invece è a Sud. E stiamo parlando del primo quotidiano della capitale! Ma ti pare che debbo correggerlo io che abito a Verona?
D. Ho letto le lodi sperticate, all’apparenza sincere, dei più grandi giornalisti italiani sul tuo lavoro, eppure tu non hai raggiunto posizioni apicali. Sarà mica che non sai nascondere il reale ed esibire il falso?
R. Tommaso Besozzi, inviato dell’Europeo, fu un grandissimo cronista, l’unico che scoprì la verità sull’uccisione del bandito Salvatore Giuliano. Morì suicida, non direttore. Pur avendo fatto il vicedirettore, sono fermamente sicuro di non aver mai nascosto il vero ed esibito il falso con deliberata intenzione.
D. Lo sai? Quando si precipita nella senilità, occorre riconciliarsi con il sesso. Lo farai?
R. Perché dovrei rappacificarmi? Non gli ho mai dichiarato guerra. Semmai occorrerà rassegnarsi alle leggi dell’idraulica. Il più tardi possibile, mi auguro.
D. Ti ritrovi in questa frase: «L’importante nel lavoro, come in amore, è fare le cose come fosse l’ultima volta?».
R. Totalmente, avendo ben presente il senso della precarietà umana. Certo sono più ferrato sulle ultime volte nel lavoro che non su quelle in amore. Se non altro perché ho avuto un’unica donna, che è anche mia moglie da 34 anni. Non ci voleva credere neppure quel brav’uomo di Vittorio Messori, forse perché prima di convertirsi lui ha corso la cavallina, come Sant’Agostino. Mi ha persino spronato a scriverci un libro, ma per il momento non ho raccolto il consiglio. Un etologo mi ha spiegato che in natura sono così monogami soltanto i lupi. Ecco, ho sbagliato a dirtelo: finirò nei titoli con l’appellativo di Lupo de’ Lupis, mi sono dato da solo la patente di pirla.
D. Sei arrivato a un’età soglia, quella in cui, prima di essere dimenticati, verremo trasformati in kitsch, stazione di passaggio fra l’essere e l’oblio. Che pensi di fare?
R. Le uniche cose che so fare decentemente nella vita sono tre: lavorare, leggere e scrivere. Fino a ieri coincidevano. Spero di poter coniugare ancora i tre verbi al futuro, altrimenti sarai autorizzato a chiamarmi l’imperfetto.
D. Richelieu diceva: «Saper dissimulare è il sapere dei re». Voltaire invece: «Saper dissimulare, virtù di re e di camerieri». Anche noi giornalisti dissimuliamo. Con chi stai?
R. Con il primo. Ma solo perché, per quanto discutibile, era un cardinale. Il laicista Voltaire mi è sempre stato sui coglioni per la sua ipocrisia. Predicava «écrasez l’infâme», schiacciate la Chiesa, però per casa si teneva soltanto servitori di fede cattolica. E lo sai per quale motivo? Era sicuro che non l’avrebbero derubato. Che è, a parti invertite, la ragione per cui invece l’Occidente va a rotoli: al potere vi è una mandria di ladri senzadio. Rimuovi il sacro dall’orizzonte dell’umanità e non resta più niente.
D. Quando sei stato vicedirettore hai mai esortato i tuoi giornalisti a una benefica inattività a fronte di cose che non conoscevano o non competevano a loro?
R. Essendo affetto da perfezionismo compulsivo, temo d’essere stato un pessimo vicedirettore. Tendevo ad accentrare, non mi andava mai bene nulla, ululavo contro la sciatteria nella titolazione, cambiavo le foto, ribaltavo le pagine. Ebbi ben chiara la mia pericolosità quando Marco Parini, un amabile ingegnere responsabile dei servizi informatici, una sera venne nel mio ufficio per informarmi strabiliato che stavo sequestrando il 70% delle risorse dell’intero sistema editoriale. Praticamente avevo aperti sul mio monitor quasi tutti i titoli del Giornale. E l’aspetto più drammatico è che li stavo aggiustando in corsa. Non avevo seguito l’esortazione di un proto, il quale, vedendomi all’opera in tipografia una delle prime sere di quel 1995, aveva mormorato sommesso e paterno: «Fa’ no el Venessia», non fare il Venezia. Pare infatti che persino i milanesi, secondi a nessuno quanto ad attivismo, siano terrorizzati dal dinamismo dei veneti. A mia parziale discolpa, posso però dire che nel maggio 1996 cambiai da solo, nel giro di tre giorni, la grafica del Giornale, imprimendole un rigore elvetico e passando dai titoli funerei in Franklin al più etereo New Aster, aiutato unicamente da due poligrafici svegli che assecondavano il mio furore iconoclasta. Il tutto con grande soddisfazione del direttore Vittorio Feltri, che infatti a una cena fra amici mi definì «un ottimo tipografo». Oggi, per ottenere il medesimo risultato, quasi tutti gli editori si rivolgono allo studio Cases di Barcellona, spendendo migliaia di euro.
D. Siddartha (Hesse) diceva: «Io so tre cose: so aspettare, so pensare, so fare a meno». Nella tua vita come le hai gerarchicamente collocate, come le hai declinate?
R. So pensare, so fare a meno, ma non so aspettare. Da quest’ultimo punto di vista non sono mai riuscito a seguire l’intelligente consiglio dell’inglese John Ruskin, lo studioso d’arte che nell’Ottocento s’innamorò della mia città, arrivando a definire la Tomba Castelbarco attigua alla basilica di Sant’Anastasia il più bel monumento funebre del mondo. Ecco, Ruskin ha insegnato che la speranza cessa di essere felicità quando è accompagnata dall’impazienza.
D. Pensi di essere arrivato a quell’età in cui non ritieni più indispensabile acquistare cose, ma difendere ferocemente quelle che hai?
R. Ci sono arrivato da molto tempo. Ma non difendo ferocemente alcunché, in quanto so che tutto mi è stato dato in prestito. Però ti rivelo una debolezza: mi coglie ancora una fanciullesca emozione quando mi ritrovo ad acquistare, per necessità o per diletto, tutto ciò che abbia attinenza con la scrittura, dal pennarello alla stilografica. Saranno state le privazioni patite da piccolo: passai un intero pomeriggio ad aspettare una penna fibra Lus da 100 lire e ho ancora scolpita nella mente la mortificazione provata al crepuscolo, quando il mio fratello maggiore tornò a casa senza. Mi aveva promesso d’acquistarla alla Standa uscendo dalla sede del Credito italiano di via Mazzini, dove lavorava, ma se n’era dimenticato.
D. Ripercorrendo il tuo curriculum professionale e umano, puoi affermare che la tua vita sia stata anche una successione di sconfitte e di rabbia, ma mai di rinunce?
R. L’unico pregio che mi riconosco è la pertinacia. Non rinuncio mai a un’impresa, e credo che le 769 puntate dei «Tipi italiani» ne siano la prova, certificata da cinque anni nel Guinness World Records. Sconfitte brucianti non mi pare di ricordarne, segno che lassù Qualcuno mi ama, anche se io ne ignoro il motivo. Quanto alla rabbia, finirò all’inferno per aver sempre assecondato uno dei peggiori fra i sette vizi capitali: l’ira. Del resto solo il Signore, avverte il salmista, è lento all’ira.
D. Tu ami Venezia e Pascal, ti ritrovi in una sua frase, «le strade di Venezia sono vie che camminano»?
È bellissima. Non la conoscevo. Mi hai fatto un regalo.
D. Secondo te, la differenza fra la «Maja vestida» e la «Maja desnuda» è solo nel vestito?
R. Anche nel fondo scuro: quello della «Maja desnuda», se non ricordo male, è rischiarato da un bagliore.
D. Tu sei una persona perbene, sai che la moralità è un grande piacere, mentre l’immoralità una grande fatica. Convieni che la moralità senza un pizzico di immoralità sia noiosa?
R. No. Potrei convenire se vivessimo in tempi normali. Ma questi non lo sono e la totale assenza di moralità che li contraddistingue, soprattutto a livello politico, rende delittuoso qualsiasi cedimento all’andazzo comune. L’Italia deve recuperare la «gravitas», cioè la serietà, che con la «dignitas» e la «pietas» costituiva la triade virtuosa dell’antica società romana. Vasto programma, avrebbe commentato De Gaulle.
D. Mi pare che tu non sia mai stato preda di ideologie, perciò ti sei privato di essere «ex» di qualcosa. In quest’epoca dominata dagli «ex», come ti trovi?
R. «È di saggio huom mutar consiglio». Non mi ricordo chi l’abbia scritto, forse Petrarca. In ogni caso, troppi uomini saggi in circolazione per i miei gusti.
D. Tu, come me, sei cattolico. Nella confessione come coniughi l’umano tasso di reticenza con il divino tasso di rigenerazione?
R. Farò a te, padre Riccardo, una confessione: io mi confesso raramente. Proprio perché so che l’umano tasso di reticenza finirebbe per invalidare il sacramento. Inoltre non ho affatto chiara la gerarchia dei peccati, e non posso dire che l’attuale pontefice contribuisca a dissipare i miei dubbi, tutt’altro. L’ho spiegato a quello che considero un consigliere spirituale, don Rino Breoni, ex abate di San Zeno, un prete ultraottantenne di cultura, sapienza biblica e sensibilità umana straordinarie, che a Verona passa per comunista. E lui mi ha chiesto a bruciapelo: «Stefano, ma preghi, almeno?». Spessissimo, gli ho risposto. Mi ha dato l’assoluzione, anche se nel foro della mia coscienza sentivo di non meritarla.
D. Hai appena lasciato il Giornale. Di norma dopo essere stati protagonisti si diventa antagonisti o cortigiani. C’è una terza via?
R. La riconoscenza. Per 20 anni mi ha dato di che vivere, in assoluta libertà. Ci sono stati alti e bassi con i vari direttori, ma non è mai venuto meno il totale rispetto per la mia autonomia. Non comunicavo neppure i nomi degli intervistati: partivo, scrivevo e il sabato mattina consegnavo la mia pagina chiavi in mano, già impaginata e titolata. L’indomani usciva senza che nessuno vi avesse messo becco. Uno stato di grazia assoluto, credimi. Non mi capiterà mai più nulla di simile.
D. Da quanto tempo non hai più visto bruciare una lampadina? Sai quella successione di lampi, quell’alone intensissimo, poi il buio assoluto. Cosa provi?
R. Mi parli di esperienze paranormali. Io non so nemmeno come si cambia, una lampadina bruciata.
D. Un letterato (non ricordo il nome) divide la nostra vita di scrittori in tre periodi: il primo della rivelazione, il secondo della confusione, il terzo della dannazione. In quale pensi di essere?
R. In nessuno dei tre. Oggi ancor più di ieri ho molto chiaro che cosa posso o non posso offrire ai miei lettori. Tu mi chiederai: che cosa? E io ti rispondo: posso farli piangere. Non è un’arte facile. Me la riconosceva anche Giulio Nascimbeni e io ancora ne vado fiero, perché se esisteva uno speta nei corsivi «con la lacrima», come li chiamava lui, questi era Giulio. Il quale mi confessò che ne ebbe conferma il giorno in cui trovò sulla scrivania al Corriere un biglietto di Gaetano Afeltra: «Molto bello il tuo pezzo di oggi. È piaciuto anche a Buzzati».
D. Nella tua vita professionale ti sei mai sentito come scrisse Brecht: «Quindi sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati»?
R. Sempre. Ma ci sono soltanto posti in piedi, caro mio, da quella parte lì.
D. Nella tua vita di giornalista ti sei sforzato, umilmente, di conoscere sia le tenebre che la luce?
R. Mi sono occupato di uomini. E io non ho mai conosciuto miei consimili che non presentino ombre e fulgori. Perciò sì, questo è sempre stato il mio sforzo. Che poi abbia dato qualche frutto, è tutto da dimostrare.
D. Pittigrilli (aveva studiato dai Padri Barnabiti) diceva che in collegio aveva imparato il latino, a servir messa, a giurare il falso, tre cose di cui nella vita puoi aver bisogno da un momento all’altro. Ti ci ritrovi?
R. Mi cogli impreparato. Non ho studiato dai preti. E neppure sono stato all’asilo dalle suore.
D. Appartieni a quel tipo di uomini che hanno molti avversari e pochissimi nemici, oppure a quelli che non hanno avversari (salvo loro stessi) ma solo nemici (pochissimi)?
R. Credo di non avere né avversari né tantomeno nemici, per il semplice motivo che non vi è molta gente in giro interessata alla mia trascurabile persona. Forse resta qualcuno scontento di me solo nella redazione del giornale della mia città, L’Arena, dove ho lavorato per tre lustri. Ma è il destino del «nemo propheta in patria». Debbo ammettere che la faccenda un po’ mi sconcerta, essendo passati 20 anni da quando lasciai quella testata per trasferirmi a Milano. Però posso capire: come caporedattore ero davvero un cerbero insopportabile.
D. Ti sei mai sentito incompreso? E se sì, ti sei sentito più vicino a te stesso o ad altri?
R. E me lo chiedi? Luigi Comencini avrebbe dovuto scegliere lo Stefano che ti parla, e non Stefano Colagrande, per il ruolo di Andrea nel film. Però mi sono dato un motto: «Voglio essere me stesso. A costo di sembrare un altro».
D. Quando si è giovani i sogni diventano spesso polluzioni notturne, via via che si invecchia scadono a narcisismo solitario, a volte incubi. Ti ritrovi?
R. Guarda, lasciamo perdere. Sarà che sono nato vecchio, ma non ricordo notti che non siano state funestate nel sonno dagli incubi peggiori, quasi tutti a sfondo bellico. Non sapevo spiegarmene il motivo, dato che sono nato nel 1956 e non sotto le bombe. Finché qualche giorno fa non ho letto sul Corriere della Sera un interessante servizio riguardante uno studio condotto dal Mount Sinai Hospital di New York, che ha documentato come nel Dna dei figli nati da persone scampate ai lager nazisti siano presenti le tracce del trauma subìto dai genitori prima del concepimento. Lungi da me l’idea di una sacrilega comparazione con la Shoah, però mia madre aveva ricordi molto angoscianti della seconda guerra mondiale. Me li avrà trasmessi insieme con la modificazione genetica Rs53576, che è stata isolata nel mio sangue quando per conto di Panorama mi sono fatto sequenziare il genoma al San Raffaele di Milano. Il professor Elia Stupka mi ha specificato che la base Rs53576 è molto rara e denota una spiccata predisposizione all’intelligenza emotiva e all’empatia, il che spiegherebbe come mai le interviste mi riescano discretamente.
D. Quando sei solo nel tuo studio e guardi le amate colline veronesi, a volte senti come un mormorio di acqua che corre, e cerchi di ricordare tutte le acque che hai sentito scorrere?
R. Avverto soprattutto il fruscio del vento, che, quando tira, si fa sentire molto forte. E allora mi viene sempre in mente una frase che un ragazzino disse a Enzo Biagi: «Dio viene con il vento».
D. Da quanto tempo non ridi senza ritegno?
R. Una settimana? Un mese? Devo starci attento: quando rido senza ritegno, mi capita un fenomeno pericoloso, come una sospensione del respiro. Un attimo di anossia cerebrale. A volte ho rischiato di svenire per una barzelletta.
D. Sei un uomo raro, impregnato di romanticismo, da quanto tempo non piangi, quietamente?
R. Ma che domande mi fai? Io piango quietamente più volte al giorno, ormai lo sanno anche i ricci del mio giardino, ho pure dedicato all’increscioso handicap tre pagine di un mio libro. Ne soffriva anche mio padre, ma essendo un calzolaio, la vita gli offrì rare occasioni per farsi scoprire. La prima volta mi capitò nel 1989, in viaggio verso il Sudafrica. Il volo Roma-Johannesburg della South african airways faceva scalo tecnico a Lisbona, prima di affrontare il periplo dell’Africa, giacché gli altri Stati del continente nero avevano chiuso alla compagnia di bandiera il loro spazio aereo, per ritorsione contro il regime segregazionista di Pretoria. Dal finestrino vidi la capitale portoghese, un luogo che amo molto, sospesa fra l’azzurro dell’Atlantico e il rosso del cielo. Scoppiai a piangere. Aveva ragione l’anonimo cinese della dinastia Tang: «Il sole del tramonto è magnifico ma la notte si avvicina». In famiglia la commozione è perdonabile. Disagevole quando si manifesta in pubblico. Quindi disagevole sempre: è appunto mentre stai parlando in pubblico che la voce s’incrina, un velo ti offusca la vista e nessuno può trarti d’impaccio. Carlo Alberto Cappelli, il miglior sovrintendente che l’Arena di Verona abbia avuto, considerava le lacrime un prezioso termometro. «La sera della prima», mi confessò pochi mesi prima di morire, «scelgo un punto qualsiasi dell’anfiteatro, dove nessuno possa riconoscermi, e ascolto. Se alle prime note comincio a piangere, è certo che quell’opera avrà successo». Non sbagliò mai un cartellone. Spesso mi si inumidiscono gli occhi anche mentre scrivo le interviste. Mi sa che Cappelli aveva capito tutto.