Chi volesse rivolgere il proprio sguardo alle sorti degli intellettuali e dei politici italiani, sales non troverebbe molte difficoltà ad aggregare quanti, nel tragico rivolgersi delle epoche, considerarono inviolabile il supremo bene dell’esistenza e non furono perciò disposti, quando gli eventi li posero dinanzi al tramonto di ciò per cui erano vissuti, a rinunciarvi, soccorsi, in questa strenua difesa, dalle più inattaccabili giustificazioni morali, teologiche, filosofiche, politiche; sporadici, infatti, furono i casi di quegli uomini determinati a fare della propria stessa vita la manifestazione di un’idea, al punto da recidere ogni legame con il mondo, quando in esso non dimorò più alcun riverbero di quella. Gli elenchi dei connazionali che ebbero l’opportunità di brillare sotto differenti, e contrapposte, bandiere, non essendo più serrati negli imbarazzati cassetti degli storici di professione, ci liberano dalla necessità di doverli rammemorare adesso. È tempo di ricordare chi, invece, recise quel legame, non volendo manifestare la propria esistenza in quel mondo che i suoi nemici stavano apparecchiando. “Oggi che tutto crolla non so fare di meglio che non sopravvivere”, fu una delle frasi che Giovanni Preziosi vergò su un biglietto, datato 26 aprile 1945, trovato nella camera in cui trascorse le sue ultime ore. Era giunto a Milano, la mattina di quello stesso giorno, in compagnia della moglie, Valeria Bertarelli, e del suo unico figlio, Romano, dopo aver coperto in poche ore il tratto di strada che separa il capoluogo lombardo da Desenzano. Nell’area imperversavano numerosi gruppi di armati pronti a dare l’assalto alle vetture, per questo si procedeva con molta cautela. Preziosi viaggiava a bordo di una Lancia Aprilia e si trovava alla testa del convoglio. Il viaggio si svolse senza difficoltà fino alle porte del capoluogo, quando, d’improvviso, all’altezza di Crescenzago, l’Aprilia su cui viaggiava Preziosi venne fermata da alcuni uomini armati, che intimarono, agli occupanti del veicolo, di scendere. Nessuno degli improvvisati controllori comprese chi avesse di fronte in quel momento.
Nella Repubblica Sociale Italiana, infatti, Giovanni Preziosi aveva avuto un ruolo di primo piano: nell’aprile del ’44 era stato incaricato della guida dell’Ispettorato generale per la razza. Nell’ultima fase del governo Mussolini (dicembre 1942) venne nominato ministro di Stato. Gli incarichi, nonostante siano stati considerati rilevanti al punto da attribuire a chi li ricoprì un ruolo di spicco nella politica antiebraica del fascismo, ebbero in realtà un valore puramente simbolico, una sorta di riconoscimento per l’impegno profuso nella diffusione delle tesi del razzismo italiano attraverso le pagine de La Vita Italiana, il mensile fondato e diretto dallo stesso Preziosi. Le prime disposizioni legislative in materia di difesa della razza risalgono, com’è noto, al 1938. La Vita Italiana aveva già avviato un approfondimento sui temi della razza sin dagli inizi degli anni Trenta, grazie soprattutto alla collaborazione di Julius Evola. Nel novembre del 1933, infatti, venne pubblicato sul mensile di Preziosi un articolo di Evola dal titolo “Osservazioni critiche sul «razzismo nazionalsota»”. Nel saggio, che esprimeva non solo il punto di vista dell’Autore, ma anche la posizione della rivista sui temi affrontati – come sarebbe avvenuto in seguito, in maniera esplicita, per molti altri scritti evoliani –, venivano presi in esame gli elementi essenziali delle tesi razziste quali si stavano delineando in Germania. Questi elementi non erano affatto accettati in blocco, ma considerati alla luce di una visione fascista, che, avendo posto al centro della politica il mito di Roma, aveva la forza di evitare la deriva relativistica implicita nel razzismo nazionalsota. Evola e Preziosi stavano dando sostanza ad un nuovo razzismo, che contemplasse l’uomo nella sua integrità; capace, quindi, di comprendere, in un’unica visione, ogni aspetto dell’esistenza, ogni aspetto della cultura e della storia di un popolo; un razzismo per qualcuno “spirituale”, ma che Evola definì “totalitario”. La Vita Italiana, e poi Evola con le sue opere, diede impulso ad un approfondimento dei temi della razza, che culminarono nella istituzione di una delle più organiche e complete dottrine della razza. Un cammino verso il disvelamento dell’uomo che avrebbe contribuito al definitivo ribaltamento della modernità. Evola e Preziosi costituirono un sodalizio che durò fino al luglio del 1943. Tra la fine di agosto e gli inizi di settembre di quell’anno i due si ritrovarono in Germania, in situazioni del tutto differenti da quelle degli anni della collaborazione a La Vita Italiana. L’ordine del giorno Grandi e la sostanziale incapacità di reazione che i fascisti mostrarono di fronte all’arresto del loro Duce avevano sfaldato quel composto umano e ideale costruito nell’arco di vent’anni. In breve tempo, uomini fedeli alla corona riuscirono ad imporsi e a condurre l’Italia verso quella resa incondizionata voluta dagli Usa, e che puntualmente arrivò l’8 settembre.
In quel periodo Preziosi aveva avuto diversi incontri con Adolf Hitler, il quale gli aveva trasmesso una straordinaria fiducia nel buon esito della guerra. Il Führer aveva acconsentito che Preziosi tenesse una serie di trasmissioni da Radio Monaco, allo scopo di indicare i responsabili della disfatta del fascismo e tenere unite le forze che avevano costituito l’Asse. Preziosi assolse a questo compito con la dedizione che aveva sempre dimostrato. Il ministro, il politico, il giornalista Preziosi volle continuare ad avere un ruolo di primo piano nella definizione dei temi politici del momento, riportandoli nell’orizzonte di un conflitto che attraversava la contemporaneità, ma che, nella sua essenza, proveniva da secoli lontani. Le sue analisi, tuttavia, pur lumeggiando aspetti controversi delle vicende politiche italiane, non furono tenute nella giusta considerazione da Mussolini. Nel memoriale che seguirà di poco questi avvenimenti (datato 31 gennaio 1944), Preziosi ripercorse le fasi cruciali che avevano portato al “suicidio del fascismo” (un’espressione che aveva già usato per allarmare Mussolini, il 18 luglio del ’43, non appena seppe della riunione del Gran Consiglio).
La sua fama di oppositore, di moralizzatore, che con perseveranza instancabile si metteva alla ricerca di quanti approfittavano di posizioni di potere per tornaconto personale, ne aveva fatto, durante tutto il ventennio fascista, una voce scomoda. Aveva conquistato la direzione di giornali importanti, come il Roma e Il Mezzogiorno, ma era riuscito nel difficile compito di saper scovare elementi di corruzione perfino in quella operazione epica che fu la bonifica delle paludi pontine, e che per Mussolini doveva restare immacolata. Non ebbe mai molti amici ai vertici del fascismo, ma la solidarietà di Farinacci lo accompagnò sin dall’epoca del delitto Matteotti e delle tensioni all’interno del fascismo napoletano. Tra Preziosi e Farinacci si stabilì presto una forte intesa, fondata sulla comune volontà di impedire che anche il fascismo diventasse, seguendo un consolidato costume nazionale, uno strumento per facilitare o accelerare le carriere politiche. I due ne avevano, infatti, la medesima visione, squadristica e movimentistica, di chi lo aveva sostenuto ed interpretato sin dalle sue origini. Giovanni Preziosi e l’economista Maffeo Pantaleoni erano parte di quel gruppo di politici, militari e intellettuali che operarono la saldatura tra movimento nazionalista, reduce dall’impresa di Fiume, e fasci di combattimento. Furono tra i primi e più convinti sostenitori dell’impresa dannunziana. Proprio nella città di Fiume egli sposò Valeria Bertarelli, la donna che continuava a condividere con lui tutti i momenti, da quelli epici di Fiume e delle origini del fascismo a quelli drammatici dell’isolamento politico, e che era in sua compagnia anche in quella mattina del 26 aprile 1945, a Crescenzago, davanti a un gruppetto di uomini con le armi spianate in cerca di qualche politico fascista, dalla cui uccisione avrebbero certamente guadagnato stima e apprezzamento. Quel gruppetto, però, ignorava che di fronte avesse uno dei protagonisti della storia del fascismo.
Fu nella sede romana de La Vita Italiana che si tennero, nel dicembre 1917, le prime riunioni del Fascio parlamentare di difesa nazionale, ideato da Pantaleoni. Il mensile di Preziosi ne divenne la voce ufficiale, assumendo così una funzione centrale nella individuazione dei temi politici dell’Italia di quegli anni. Durante quelle riunioni venne individuato in Mussolini l’uomo che avrebbe potuto essere il punto di riferimento della campagna di stampa a favore di un più deciso impegno nella guerra. Occorreva superare quel sentimento di sfiducia diffusosi dopo Caporetto e, in seguito, indicare una via in cui avrebbe prevalso sempre di più una prospettiva anti-bolscevica. La componente economica dello Stato aveva spesso costituito un tema centrale nelle pagine del mensile diretto dal giornalista irpino. All’inizio del primo conflitto mondiale, Giovanni Preziosi aveva condotto una battaglia giornalistica contro la penetrazione del capitale tedesco nell’economia italiana. I suoi articoli avevano suscitato l’interesse del pubblico e di molti esperti, tra i quali l’accademico Maffeo Pantaleoni, che avvierà una fruttuosa collaborazione con Preziosi, culminata, nel 1915, con la pubblicazione della seconda edizione dell’opera La Germania alla conquista dell’Italia, un caso editoriale di tale importanza da determinare le dimissioni dei vertici della Banca Commerciale Italiana. Fu uno dei più documentati saggi sulla situazione economica italiana allo scoppio della guerra e, allo stesso tempo, uno strumento essenziale per comprendere le dinamiche della finanza internazionale. Preziosi portò allo scoperto le mire e le strategie penetrative della finanza, quelle, cioè, che trent’anni dopo verranno imposte senza condizioni alle nazioni sopravvissute alla guerra mondiale. Ma di questi avvenimenti, il drappello di armati che aveva intimato l’alt alla vettura di Preziosi ignorava tutto. Non riconobbe i tratti somatici del politico irpino né il timbro della voce di Radio Monaco, e le speranze di aver messo le mani su qualche gerarca locale da fucilare stavano svanendo.
Intanto, lungo la stessa strada sopraggiunse una seconda vettura, a bordo della quale si trovava il nipote del senatore Rolandi Ricci, il quale, accortosi del pericolo, aprì il fuoco contro il gruppo di armati. Ne nacque uno scontro, che consentì a Preziosi, alla moglie e al figlio, di fuggire a piedi verso Milano, dove trovarono ospitalità in casa di amici. Giovanni Preziosi non era riconoscibile. La sua fisionomia era per molti ignota. Ne conoscevano i tratti somatici solo in pochi. Ancora oggi conserviamo solo una o due immagini fotografiche che lo ritraggono. Forse nessun politico più di lui avrebbe potuto sottrarsi alle fucilazioni, che furono la colonna sonora della primavera e dell’estate italiane del ’45. Ma quel viaggio, quell’episodio, furono per lui simboli, furono la rappresentazione di un mondo che stava crollando, un mondo a cui lui era intimamente legato e che aveva in parte generato. Se la possibilità di incarnare un’idea, di vivere e combattere per essa, costituisce il destino più alto di un uomo, Preziosi vide realizzarsi interamente tutto il suo destino. Il nuovo mondo non sarebbe stato il suo, ma ne avrebbe rappresentato addirittura la negazione. Avrebbe potuto riciclarsi, se avesse scelto un altro destino, ma decise che la sua esistenza non avrebbe potuto incardinarsi nel mondo che aveva combattuto. La sua donna condivise anche questa scelta, come in un arcaico rito di immolazione. Così, nella notte del 26 aprile del 1945, Giovanni Preziosi e Valeria Bertarelli tolsero ai nemici il gusto di decidere delle loro vite.
Massimo Pacilio