
Lo storico avvocato della multinazionale di Alba ricorda i primi brevetti, la nascita della Nutella e quella volta che «Michele disegnò un’auto per Agnelli».
Passano i decenni, ma Franzo Grande Stevens, avvocato di fiducia di Michele Ferrero, racconta con incredulità un episodio che ha segnato la sua vita professionale. Gianni Agnelli desiderava incontrare quell’imprenditore piemontese del cioccolato, un uomo che stava impressionando l’Europa e il mondo con i suoi successi. “Michele era piuttosto riservato e provava un timore reverenziale nei confronti dell’Avvocato. Ci vollero mesi per convincerlo. Quando finalmente riuscii a portarlo nell’ufficio di Agnelli, si presentò con la moglie e, dopo i convenevoli, allungò un plico al proprietario della Fiat. ‘Che cos’è?’, chiese Agnelli. Ferrero spiegò che quel documento conteneva il progetto per un’utilitaria. L’Avvocato sobbalzò e disse: ‘Sa, caro Ferrero, io di automobili non ne capisco nulla, ma passerò volentieri la sua idea a Vittorio Ghidella’.
Così, l’allora capo del settore auto della Fiat si trovò per le mani i disegni della Cittadina, una piccola vettura per uso urbano, caratterizzata dalla rivoluzionaria capacità di spostarsi lateralmente girando le quattro ruote di 90 gradi. “È per facilitare il parcheggio”, spiegava convinto Ferrero all’attonito Avvocato. “Non si trattava di un semplice schizzo, era un progetto vero e proprio a cui aveva lavorato con grande cura”, racconta Grande Stevens. “Era un’idea geniale, ma gli ingegneri della Fiat la scartarono, ritenendo che la Cittadina sarebbe costata troppo e che secondo loro non avrebbe avuto successo sul mercato”.
Il padre Pietro e gli inizi dell’epopea
L’episodio riassume i tratti salienti del percorso imprenditoriale di Ferrero, scomparso a Montecarlo il 14 febbraio scorso, quasi novantenne. Non c’era solo la passione per il cioccolato, maturata sin da piccolo nel laboratorio di pasticceria del padre Pietro. Michele, dopo aver conseguito il diploma, cominciò a lavorare nell’azienda di famiglia senza necessità di lauree o studi di ingegneria, sviluppando precocemente una vasta creatività nel campo delle macchine industriali. “Avevo una vera passione per le macchine”, confessò nel 1967 nell’unica intervista concessa nella sua vita per il libro Storia di un successo, pubblicato a Torino dalla casa editrice Aeda. “Dicevo a mio padre: papà, mandami a Parigi, Francoforte, Londra, New York, ma non a fare il turista. Voglio vedere macchine nuove e comprarle”. Pietro Ferrero era riluttante: “Sei giovane e troppo entusiasta. Finirà che ti fanno fesso”.
Il padre morì d’infarto nel 1949, quando Michele non aveva ancora 24 anni e si trovava alla guida dell’azienda familiare, insieme alla madre Pierina Cillario e allo zio Giovanni. Fece suo un business ancora giovane. Pietro Ferrero aveva inventato un cioccolato accessibile del dopoguerra: partendo dal classico gianduiotto torinese, aumentò la quantità di nocciole e sostituì il costoso e introvabile cacao con burro di cocco e altri grassi vegetali. Nacque così la Pasta Gianduja, confezionata in grossi pani avvolti in carta stagnola. Il fratello Giovanni li distribuiva con la sua Millecento.
Con il giovane Michele, però, si assistette a un vero decollo imprenditoriale. Inventò prodotti su prodotti: prima della rivoluzionaria Nutella, furono creati il Sultanino e il Cremablock. Ogni nuova epifania del cioccolato accessibile era accompagnata dalla scoperta o invenzione di una nuova macchina. “Per il Cremablock”, raccontò Ferrero, “andai a Copenaghen a comprare…”

Una delle più colossali macchine presenti all’epoca. D’altro canto, l’abitudine di esplorare e raccogliere idee in giro per il mondo non lo ha mai abbandonato. Raccontava a Grande Stevens che la confezione di plastica delle caramelle Tic Tac, che si apre con un dito, la scoprì in Giappone, e da quel meccanismo di apertura emerse anche il nome. “Il prodotto ha avuto un grande successo negli Stati Uniti, ma inizialmente incontrò difficoltà a causa dei pesanti dazi doganali. È stato allora che ho suggerito a Michele di avviare la produzione a Portorico, che godeva di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti.”
È quindi con Michele, figlio del pasticcere di Dogliani, che la Ferrero inizia a crescere. La barrettina Cremablock (venduta al pubblico per 30 lire e pesante 36 grammi) viene lanciata nel 1952, e l’anno successivo la produzione aumenta di sei volte. Quando arrivano i veri e propri best seller, emerge la questione dei marchi e dei brevetti. Ferrero è molto attenta al business, anche nella sua dimensione più concreta. È in questo contesto che entra in gioco Grande Stevens. “Ero un giovane avvocato e la madre di Michele venne da me chiedendomi due cose. La prima era di monitorare Michele: era preoccupata perché, durante le rare pause dal lavoro, si muoveva a velocità non sempre moderata a bordo della sua Ferrari. La seconda richiesta consisteva nell’assisterli nell’acquisto di una vecchia filanda che un’organizzazione religiosa di Alba aveva messo all’asta. Volevano acquisirla per creare un nuovo stabilimento, ma temevano che presentarsi con il nome Ferrero avrebbe fatto lievitare il prezzo. Così organizzai un’offerta anonima ‘per persona da nominare’ e il contratto si concluse con successo.”
Successivamente si presentò l’operazione Mon Cheri. Quando Ferrero lanciò la nuova pralina, si accorse che esisteva già qualcuno che utilizzava quel nome, rischiando così una causa estremamente costosa. D’altro canto, era troppo tardi per cambiare un marchio che stava già riscuotendo un notevole successo. Grande Stevens intervenne nuovamente: “Trovammo una soluzione brillante. Scoprimmo che a Cuneo esisteva una pasticceria che aveva utilizzato il marchio Mon Cheri prima di tutti. Andammo a Cuneo e la acquistammo direttamente. Così salvammo il marchio, che ancora dopo più di cinquant’anni è di grande successo.” Tuttavia, c’era un altro problema legato al Mon Cheri, che si ripeterà poi con il Pocket Coffee. Il segreto di quel cioccolatino risiede nella sofisticata tecnica studiata personalmente da Ferrero per iniettare l’alcol all’interno della guscio di cioccolato senza farlo sciogliere. Il timore era che qualcuno potesse rubargli l’idea. Grande Stevens propose di brevettare tutto. Ferrero mostrò riluttanza, portando buone ragioni. Infatti, mentre è facile scoprire se un prodotto brevettato viene copiato, brevettare un processo produttivo e una macchina industriale può essere rischioso: si tratta di depositare presso l’ufficio brevetti l’idea e il progetto della macchina in questione, rendendo così pubbliche e accessibili le informazioni elaborate. A differenza dei prodotti di consumo, le macchine industriali possono essere replicate con relativa facilità: “Come posso andare negli stabilimenti dei miei concorrenti per verificare se hanno copiato la mia macchina?”, si lamentava Ferrero con il suo giovane avvocato. Anche in questo caso, Grande Stevens trovò una soluzione astuta. “Mi venne in mente che esisteva una convenzione internazionale in base alla quale tutti i paesi aderenti riconoscevano validità ai brevetti registrati in qualsiasi altra nazione firmataria. E poiché alla convenzione partecipava anche l’Egitto, suggerii a Ferrero di depositare il brevetto per la macchina del Mon Cheri al Cairo. Per un concorrente sarebbe stato difficile immaginare che proprio ai piedi delle piramidi si trovava il segreto di Ferrero, e comunque il documento complesso era ovviamente redatto in arabo, dopo un lungo e laborioso lavoro di traduzione; insomma, a quei tempi era piuttosto improbabile che qualcuno andasse fino al Cairo per cercare e leggere in arabo la tecnica di produzione dei Mon Cheri.”

Ferrero era estremamente attento alla qualità dei suoi prodotti. Se gli altri grandi imprenditori italiani della seconda metà del XX secolo – a partire dal leggendario Agnelli – avessero avuto anche solo un decimo della dedizione dell’inventore della Nutella, l’industria italiana non verserebbe nella situazione difficile attuale, così problematica. “Mi raccontò il suo segreto per lo sviluppo dei prodotti,” ricorda Grande Stevens. “Aveva trovato un supermercato in Lussemburgo disposto a esporre nuovi articoli senza il marchio Ferrero. Alcuni membri del personale osservavano le clienti mentre uscivano e si avvicinavano a loro, offrendo un compenso in cambio di un’intervista. Andavano negli uffici e Michele, nascosto dietro una parete, ascoltava attentamente e suggeriva le domande più appropriate agli intervistatori.”
Ferrero stesso amava infiltrarsi nei supermercati in incognito per assaggiare direttamente i prodotti che attiravano la sua attenzione o di cui temeva la concorrenza. In questi blitz, secondo la leggenda aziendale, era accompagnato da un collaboratore che raccoglieva le confezioni di dolci assaggiati e le portava in cassa per il pagamento. Anni di lavoro meticoloso precedevano il lancio di ogni nuovo prodotto, con l’idea che, una volta introdotto sul mercato, dovesse durare per sempre. E così è stato; considerando dal Mon Cheri alla Nutella, dal Brioss al Kinder, fino al Duplo, quasi tutti i prodotti Ferrero sono entrati nella terza generazione di consumatori. Molti nonni di oggi li hanno conosciuti da bambini. Tuttavia, arrivare alla messa a punto richiedeva un lavoro incessante. La creazione del Ferrero Rocher ha richiesto sei anni di prove, con sessioni di assaggio imposte dal fondatore ai suoi manager, durante le quali si potevano assaggiare fino a 70-80 campioni per confrontare le varie versioni. Fino al giorno in cui i manager si sono ribellati e hanno chiesto il diritto di poter sputare come gli assaggiatori di vino.”
“Ferrero si portava il lavoro a casa,” racconta Grande Stevens, “e infatti nella villa di Montecarlo, dove viveva da molti anni, aveva fatto costruire un laboratorio personale, dotato di tecnologie all’avanguardia, forni speciali e personale di supporto, dove ha continuato a inventare nuovi prodigi di cioccolato fino alla fine.”
Attento alla qualità del prodotto, Ferrero ha fatto della sua azienda una delle maggiori e più autentiche multinazionali europee, anche grazie a una meticolosa attenzione al contesto commerciale, ovvero alle condizioni necessarie affinché i suoi prodotti trovassero clienti e successo nel mercato. Un’alleanza fondamentale è stata quella con la Chiesa. Profondamente cattolico, devoto alla Madonna di Lourdes, Ferrero ha saputo garantirsi il supporto della Pontifica Opera di Assistenza, che distribuiva cioccolato Ferrero attraverso la sua rete. Il giornale della diocesi di Alba, a metà degli anni ’50, scriveva entusiasta dell’illustre concittadino: “La Ferrero ha saputo creare un prodotto dolciario accessibile a tutte le tasche, favorendo un consumo massiccio tra famiglie, comunità e bambini delle categorie più svantaggiate.”
L’azienda si espande e Ferrero si rivolge a parrocchie per cercare manodopera. L’unico ostacolo era il lavoro domenicale, di cui Ferrero è pioniere per poter soddisfare la crescente domanda di cioccolato al risultato surrogato di cacao. Per calmare il malumore ecclesiastico, implementò la celebrazione della messa ogni domenica mattina, officiata dal cappellano di fabbrica, nel cortile dello stabilimento. Le forme di paternalismo incontravano il favore degli operai. Ferrero è stato sicuramente un datore di lavoro amato dai suoi dipendenti, i quali si sentivano rispettati. Un chiaro esempio di un buon rapporto senza eccessive frizioni si ebbe nel novembre ’94, quando la fabbrica di Alba venne devastata dall’alluvione del fiume Tanaro. Gli operai si offrirono volontariamente di ripulire la fabbrica dal fango, permettendo di riprendere la produzione nel giro di pochi giorni.
Certamente, in Ferrero l’attenzione al cioccolato sfociava in ossessione: “Quando proposi a mia moglie di sposarmi, le dissi: pensaci bene, se accetti, sposi un uomo che ti parlerà sempre di cioccolato.” E quando nacquero i suoi due figli, Pietro nel ’63 e Giovanni nel ’64, li portò immediatamente in azienda. “Era giusto far conoscere ai miei operai i miei successori,” affermava con orgoglio quando i due erano ancora all’asilo. È l’unico caso in cui la lungimiranza di Ferrero non è stata premiata dal destino: Pietro, tre anni fa, è mancato a causa di un infarto, come il nonno da cui aveva preso il nome, senza aver ancora raggiunto i cinquant’anni.