Al «Corriere», che allora era anche «Corriere d’Informazione», ha allevato una nidiata di giornalisti – ieri giovani, oggi adulti e famosi che senza di lui oggi sarebbero adulti ma non famosi – una nidiata che impesta ancora adesso le prime pagine dei più importanti giornali italiani. Quando era scomodo (anche se faceva figo) frequentava il giro della sinistra di «Lotta continua». A casa sua in corso Garibaldi a Milano incontravi la Inge Feltrinelli che di ritorno dalla Cina portava il suo regalo al «Collettivo Cinema Militante» dei fratelli Frassa: un documentario affascinante ma anche lungo e noioso in cui si dimostrava quanto dovessimo sperare di diventare come loro (i cinesi). Ma poi, presa da parte e tampinata dalle domande di Perazzi, la Inge era costretta ad ammettere: «Certo che i cinesi sono un po’ troppo sciovinisti». Perazzi amava, conosceva l’arte; amava, praticava, la scrittura veloce e pulita; amava dividere con i suoi giovani discepoli giornalisti il pane e il vino; amava litigare con i «superiori» se volevano sottolineare o sottovalutare una notizia; amava difendere gli «inferiori», i suoi cronisti, se pestavano una gaffe; amava raccontare storie fantastiche talmente belle che sembravano vere. Ci sono persone, soprattutto giornalisti, che ancora oggi vanno in giro con le cravatte di cotone, le giacche di seta, le calze di cachemire che Perazzi regalava ai suoi diletti.
Ieri mattina Perazzi s’è svegliato, scoglionato come negli ultimi tempi, ha chiesto alla amata moglie Donata, che ha sposato un paio di volte, e sempre per davvero e sempre con grande amore, un caffè. Lo ha bevuto con il piacere di chi vede in fondo alla tazzina la fine di un piacere: s’è spostato un poco appena più in là e se n’è andato senza rompere le scatole a nessuno; se n’è andato in silenzio, lui che non stava mai zitto; tra pollice e indice ha tirato un po’ il suo baffo destro – un tic che si portava appresso da quando era giovanotto -; l’ultima parola che ha detto è stato un «grazie Donata». Lui, che non gli andava mai bene niente: che ai suoi cronisti faceva riscrivere gli articoli anche tre volte, che – quarant’anni fa – sfidava l’attuale direttore del «Corriere»: «Diventerai bravo quando imparerai a scrivere un pezzo d’arte e quando riuscirai a scrivere un pezzo di cronaca nera di 90 righe in mezz’ora».
L’altro ieri, il pomeriggio prima di morire, Perazzi era contento perché aveva visto, recentemente, i suoi tre figli e aveva raccontato loro quanto sia possibile vivere (serenamente?) con la morte appollaiata sulla spalla. E a chi,suo allievo, per combinazione del destino, gli era accanto diceva, senza pudore: Renzi sbaglia questo, Napolitano non ha capito quest’altro, Lacan non si capisce niente ma andrebbe ristudiato, l’arte aveva ragione Duchamp non compratela fatevela, il calcio non mi interessa, per fortuna che c’è l’anniversario così abbiamo letto qualcosa di decente sulla Prima guerra mondiale, non è vero che bisogna soltanto rileggere i classici ci sono anche scrittori noir italiani che non sono male. E anche le donne… bisogna stare dalle parte delle donne: temo che siano meglio di noi.