IL MOBILE NON È PIÙ LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO. ALTI INVESTIMENTI E PREZZI A PICCO, MENTRE LE FUSIONI TRA OPERATORI SONO SPESSO OSTEGGIATE DALLE AUTORITÀ MA A SOSTENERE I MARGINI TORNANO I CAVI E LA FIBRA PERCHÉ LA COMPETIZIONE TRA LE PAY-TV È ORA SUL WEB
A questo punto ne sono tutti certi: la prossima mossa toccherà a Vodafone, che non può accontentarsi di aver comprato l’operatore spagnolo via cavo Ono per 10 miliardi in marzo e, dopo aver acquisito cable company e reti in fibra in casa (Cable & Wireless nel 2012) e in Germania (Kabel Deutschland l’anno scorso), ora deve completare il quadro con l’Italia e concludere le trattative con Fastweb. Trattative che si sono arenate da mesi sul prezzo, ma viste le valutazioni che stanno salendo quasi a ritmo di bolla, sarebbe invece il caso di chiudere rapidamente. D’altra parte non più tardi di 10 giorni fa Telefonica ha offerto una valutazione di 11 volte l’ebitda per la brasiliana Gvt e appena la settimana scorsa si è arrivati a un multiplo di 14 volte l’ebitda 2014 nel caso dell’Opa lanciata dai francesi di Orange sulla spagnola Jazztel. Il gruppo di Vittorio Colao deve ancora investire la gran parte del bottino da 130 miliardi di dollari ricavati dalla sua uscita da Verizon Mobile in Usa. E’ dunque tempo di muoversi perché nelle tlc europee stanno accadendo delle novità interessanti e si è avviata una nuova fase di sviluppo il cui driver è nella fibra ottica e nelle reti fisse più ancora che nella banda ultralarga mobile. Il cavo si sta insomma prendendo la rivincita sulle reti wireless. Ci sono infatti le condizioni per rilanciare la domanda di connessioni fisse a banda larga grazie alla tv (e in particolare alle pay-tv) mentre sul versante delle reti cellulari, si assiste ad una fase di continuo declino dei prezzi e di competizione forsennata. «In Europa ci sono oggi circa 180 fornitori di telefonia mobile, 40 dei quali con più di 5 milioni di abbonati, ai quali si aggiungono oltre 150 operatori virtuali – spiega Enrico Lanzavecchia, director di Value Partners – Un mercato dunque molto frammentato. E non solo come operatori: ci sono anche 28 distinte autorità di regolamentazione. L’insieme di questi fattori ha portato a una pressione competitiva sui prezzi che ha prodotto negli ultimi cinque anni una discesa dell’Arpu, la spesa media mensile per utente, del 6% in media generale e del 10% in Italia e in Spagna. Al tempo stesso, le esigenze di realizzare le reti 4G e le aste per le frequenze hanno portato il livello medio di investimenti dai 30 euro l’anno per abbonato del 2009 ai circa 50 euro l’anno attuali. E ciò significa che la quota di ricavi assorbita dagli investimenti è passata dal 13 al 19%. Tutto questo mette a rischio la sostenibilità degli investimenti futuri». Tempi duri insomma per gli operatori mobili. E neanche la notizia che non rischieranno nuove aste sulle frequenze nei prossimi cinque anni almeno perché l’Ue ha spostato al 2030 il tempo limite di utilizzo delle frequenze terrestri da parte dei broadcaster tv può consolarli più di tanto. L’unico modo per ridurre la pressione competitiva sarebbe quello di ridurre gli operatori, ma non è facile. Ci si è riusciti in Gran Bretagna, con la fusione nella joint venture Everytime Everywhere degli operatori mobili controllati da Orange e da Deutsche Telekom, ma va anche detto che in Inghilterra erano partiti in sei. In Germania la definizione dell’acquisizione da parte di Telefonica di E-Plus per 8,6 miliardi ha richiesto mesi di snervante istruttoria da parte delle Authority di mercato. In Francia, quando Vivendi ha messo in vendita Sfr, il tentativo di Bouygues di rilevarla avrebbe ridotto il numero di operatori, ma non è andato in porto e Sfr è andata all’operatore di tv via cavo Numericable. Negli Usa l’ipotesi di fondere il quarto operatore, T-Mobile, con il terzo, Sprint, è stata ora accantonata per manifesta ostilità del regolatore. In Italia di consolidamento di H3g si parla da anni, prima con Telecom Italia, poi con Wind, ora di nuovo con Telecom, ma sono solo voci e tutto resta sempre in alto mare. E anche le sorti dello “spezzatino” più famoso del mercato mondiale, quello di Tim Brasil, sembrano al momento bloccate e forse lo rimarranno per sempre. E’ in questo scenario di mercato a tinte piuttosto fosche che le telco hanno riscoperto il fascino della rete fissa. Che, va detto, continua a garantire margini ancora vicini al 40%. Ma non potranno farlo ancora a lungo se si limitano ancora ad offrire solo voce e accessi a banda larga. Ora però ci sono delle novità tali da riportare le attenzioni su cavi e centrali telefoniche. E’ successa, fondamentalmente, una cosa sola: che la tv su Internet non è più una chimera ma una realtà. La diffusione della banda larga, anche solo nelle maggiori aree urbane, dove però si concentra la maggioranza dei consumatori di tv, è cresciuta. La tecnologia dello streaming video ha raggiunto standard apprezzabili in termini di velocità, qualità di immagine e affidabilità. E se non è ancora buona – forse per trasmettere la diretta di una partita di calcio, lo è però già oggi per trasmettere film e serie tv, che il problema della diretta non ce l’hanno. In più, le reti telefoniche in banda larga, con il mix attuale di fibra e adsl di ultima generazione (e prossimi step tecnologici del vecchio rame sono in arrivo) sono in gran parte già ammortizzate nei bilanci delle telco dalla attuale struttura tariffaria. Certo, ora si tratta di trovare i nuovi servizi in grado di accelerare ulteriormente gli investimenti, ma oggi la rete fissa è un asset che un suo equilibrio lo ha trovato (prova ne sia anche la fine della annosa telenovela italiana sullo scorporo della rete cablata di Telecom Italia). Che cosa significa tutto ciò? Che oggi un broadcaster di pay tv satellitare, che ha un costo di acquisizione di ogni nuovo abbonato sopra i 600 dollari, potrebbe grazie ai cavi delle tlc dimezzare tale cifra. I 600 dollari – spiegano gli addetti ai lavori – vengono per oltre la metà, circa 350 dollari, dalle spese relative al satellite (affitto de canali, sistemi di crittaggio del segnale) mentre poco meno di 300 dollari sono le spese di marketing. Andando online le spese di marketing resterebbero, mentre i 350 dollari del costo del satellite non si può dire che sparirebbero del tutto, ma quasi. Insomma, con Internet la tv abbatterebbe i costi. E non solo la tv satellitare, ma anche quella terrestre (pur se in misura minore). Le tv sono dunque la nuova voce di ricavo delle telco: quello che non si può far pagare in più agli utenti per la connessone a banda larga, può essere richiesto ai broadcaster. che hanno interesse a comprare dalle telco non solo la banda per trasmettere, ma anche la gestione della qualità del segnale. E questa dipende dagli investimenti delle telco stesse sulla sottorete di video server. I server per i servizi video, i cosiddetti Cdn, Content Delivery Network, sono di fatto la rete Internet di alta qualità. Sono degli hub di immagazzinamento di film, serie tv e quant’altro che moltiplicano i punti di accesso per gli utenti. Ogni utente, quando richiede un contenuto video attraverso la Rete, viene indirizzato dall’operatore verso il server più vicino. Non è una corsia preferenziale, si tratta banalmente di fare meno strada possibile e ciò assicura più qualità. La differenza la si vedrà in Francia, dove da lunedì scorso è stata lancia l’offerta di Netflix. Ma il gigante Usa del video on demand, con i suoi abbonamenti da 8 euro al mese, in Francia non avrebbe fatto accordi con operatori come Canal Plus, Orange, Free, per non dover versare loro una quota dei ricavi. Dovrà quindi investire in una rete Cdn di sua proprietà o affidarsi al best effort allo stato puro: uno scarto che pagherà in termini di qualità delle immagini e di tempi di risposta del servizio. In compenso, l’arrivo di Netflix, il lancio del suo nuovo servizio ha portato alla ribalta ancora di più il nuovo mercato della tv via Internet e di questo si sono per ora avvantaggiati gli operatori già presenti sul mercato del video on demand (che non è poi altro che il vecchio blockbuster, il videonoleggio, digitalizzato e messo online) come Canal Play di Vivendi-Canal Plus, oppure Jook o Filmo Tv. Questo sviluppo spiega anche perché tanta attenzione sul mercato spagnolo negli ultimi mesi. Qui il mercato si apre ora con lo sblocco dello stallo determinato dalla crisi del gruppo Prisa che controllava la pay tv satellitare Digital Plus. Ora, con il passaggio di Digital Plus a Telefonica, la partita può riprendere. Ci sono ancora milioni di utenti da conquistare e nelle cui case mettere i set-top-box da collegare alla rete fissa a banda larga e forse, visti i molteplici fronti su cui è impegnata Telefonica, potrebbe essere il momento giusto per accelerare e portare la competizione in casa di Alierta. L’obiettivo prioritario di ogni telco è dunque adesso di mettere assieme il maggior numero di utenti a banda larga fissa da “rivendere” ai broadcaster. Il modello inglese, dove BSkyB è direttamente sul mercato, vendendo i suoi canali pay online e offrendo anche la connessione Internet, non è ormai replicabile. Si va dunque verso accordi di “trasporto e servizio” tra le pay tv e le telco. Di qui accordi come quello tra Sky e Telecom Italia e con Fastweb. Accordi a cui potrebbe aggiungersi anche Mediaset, senza bisogno di costosi incroci azionari con il gruppo di Marco Patuano. Che, per parte sua, può permettersi di restare alla finestra: è l’unico a poter offrire pacchetti quad play (fisso, mobile, banda larga e tv) e la riduzione degli operatori mobili sul mercato non è la sua priorità. E finchè nessuno, Vodafone o altri, si farà avanti per Fastweb, o chissà, per Metroweb, non ha nemmeno concorrenti da cui guardarsi. Posa di cavi in fibra nelle città. Le nuove tecnologie di rete stanno abbassando i costi e il cablaggio sta ripartendo dopo anni di stasi Il grafico qui sopra, di fonte Asstel, evidenzia il peso del settore Tlc nelle maggiori economie europee.
Affari e Finanza