Io, Mister, vi dico: il club conta di più
La formula del successo? 70% società, 20% giocatori. E solo 10% allenatore. Marcello Lippi non crede ai maghi della panchina. Ma sottolinea il valore delle squadre-azienda. E aggiunge: siamo alla vigilia di una rivoluzione culturale del calcio
di Cesare Lanza “Capital”
Marcello Lippi, allenatore della Juventus neoscudettata, è l’invitato d’onore a parlare, per Capital, del nuovo campionato di calcio.
– La mortificante sconfitta della Nazione nel mondiale in Giappone e in Corea ridimensionerà la passione degli italiani per il football?
“Non credo proprio. Il motivo dell’eliminazione non è tecnico, ma legato a fattori contingenti. Il valore tecnico del calcio italiano è riconosciuto. Nel campionato del mondo questo valore non è venuto fuori, tutto qui. Siamo alla vigilia di cambiamenti culturali e sociologici anche nel calcio, ma il nostro valore esiste, anche se non siamo riusciti ad esprimere ciò che sappiamo.”
– Qual è il cambiamento principale?
“Il ridimensionamento degli interessi economici. Ci sono stati anni di sbornia, legati agli incassi dei diritti televisivi:ora si sta tornando alla normalità.Al buon senso.”
– La cancellazione della Fiorentina, l’acquisto inatteso di un campionissimo
come Rivaldo da parte del Milan, il chiassoso caso Ronaldo, le trattative estenuanti per alcuni calciatori (Cannavaro, Nesta, Davids…) sono stati al centro dell’attenzione, in agosto, provocando polemiche molto accese.
“E’ la conferma di quanto sostengo: nonostante un mercato caratterizzato
dalla mancanza di denaro, e quindi di colpi di scena spettacolari legati alle compravendite, ci sono mille modi per discutere e scaldarsi, sotto gli ombrelloni.”
– Altra novità, il blocco dell’importazione dei calciatori comunitari.
“Una decisione che non mi trova d’accordo. E’ legata alla delusione per il risultato della Nazionale e copre altri problemi. Non capisco perché si debba o si possa impedire a calciatori importanti di esprimere il loro valore anche in Italia e al pubblico italiano di vederli all’opera nel nostro campionato. Non credo neanche che il provvedimento serva alla Nazionale. E’ una decisione ingiusta e prima o poi sarà riveduta.”
– A proposito di Nazionale: lei ci fa un pensierino?
“Per il momento tutta la mia attenzione è concentrata sulla “mia” squadra, la Juventus. Poi, ho dichiarato più volta che – proprio in considerazione del mio legame anche affettivo verso la Juventus – non allenerò mai più altre squadre di club. La Nazionale, dice? E quale allenatore non ci farebbe un pensierino? Se e quando arrivasse il giusto momento, sarei lusingato e felice.”
– La sua immagine pubblica è legata a quattro aggettivi, usati ripetutamente quando si parla di lei. Bello, addirittura come Paul Newman: così scrivono, spesso, i cronisti sportivi. Duro, perché a volte ha assunto atteggiamenti drastici, intransigenti. Antipatico, perché in molte occasioni non ha fatto niente per smussare gli angoli e forse anche perché, e questo è l’ultimo aggettivo, tutti riconoscono che lei è vincente, grazie all’infinità di successi raccolti nella Juve. Dunque: bello, duro, antipatico, vincente. Vorrei un suo commento.
“Vediamo un po’. Bello? Lasciamo perdere, neanche una parola di commento: mi viene solo da sorridere. Duro? No, questo non l’accetto: quasi tutti quelli che hanno lavorato con me possono testimoniare che non è così. Mai stato duro per impostazione mentale o vocazione, ho sempre cercato (essendo stato calciatore, prima che allenatore) di capire le esigenze dei miei giocatori e di andare loro incontro. Antipatico? Riconosco che in certi momenti passati forse non ero sereno, ho avuto reazioni aspre…”
– Allude all’infelice periodo alla guida dell’Inter?
“Ho vissuto un paio di anni non sereni, anche l’ultima stagione alla Juve prima di passare all’Inter. Quante tormentose e inutili discussioni. E mi sono lasciato andare a dichiarazioni un po’ forti, con parole che potevano suscitare, e hanno suscitato, reazioni critiche. Mi dispiace.”
– Ultimo aggettivo: vincente.”
“Mi fa piacere. Anche se tutte le definizioni drastiche, anche questa come
quelle precedenti, hanno limiti oggettivi. In questo caso, è vero che ho ottenuto alcune belle vittorie, ma ogni partita è una partita nuova.”
– Allora, dopo gli aggettivi che le sono abitualmente dedicati da giornali e televisioni, provi lei a definirsi, in poche parole.
“Non è giusto neanche questo, che sia io a parlare di me, a proporre la giusta definizione. Comunque, penso di essere una persona normale. Mi piace lavorare, sono innamorato del mio lavoro. Sono esigente, ma non supero mai certi limiti. Mi piace ridere, scherzare, divertirmi col mio gruppo. Pretendo molto, ma rispetto le regole. Ad esempio, non entro mai nella vita privata dei miei atleti, rispetto la loro maturità: se poi sbagliano, se ne prende atto. E penso anche di essere stato molto fortunato, nell’avere l’opportunità di dedicare la mia vita a ciò che mi piace e a ottenere un certo successo.”
– Ecco: a proposito di fortuna, vorrei farle una domanda ricorrente nelle
discussioni sportive. Quanto incide veramente, nel successo di una squadra di calcio, il lavoro dell’allenatore?
“Da vent’anni ormai faccio questo mestiere e ho raggiunto via via convinzioni precise. Volendo disegnare delle percentuali, direi che i meriti dell’allenatore sono limitati al 10 per cento. Il 20 per cento è dei giocatori, il 70 per cento spetta al club.”
– E’ un’affermazione che, forse, farà discutere. Di solito il dibattito è diviso tra chi è convinto che meriti e demeriti siano degli allenatori e chi sostiene che tutti o quasi i meriti, o demeriti, spettino ai calciatori.
“Sì. Ma chi sceglie l’allenatore e i calciatori? E non è forse il club, prima e dopo aver messo a disposizione di un buon allenatore una buona “rosa” di calciatori, non è forse il club a operare scelte giuste, o sbagliate, per la programmazione, l’integrità dei bilanci, l’organizzazione, le strategie?”
-Nella sua lunga carriera, quali sono gli allenatori che maggiormente ha ammirato?
“Il più importante è stato Fulvio Bernardini. E anche in questo caso sono fortunato: ho avuto la possibilità di lavorare con lui, sia come giocatore sia come allenatore.”
– Quando e come?
“Nella Sampdoria, prima Bernardini è stato mio allenatore, poi ho lavorato al suo fianco, quando alla fine della mia carriera fui designato ad allenare la squadra primavera. Fulvio aveva una personalità, un carisma di varie lunghezze superiore a quella di tutti gli altri. Sul piano del linguaggio, della comunicazione, dell’ironia, della capacità di sdrammatizzare, oltrechè della preparazione tecnica e culturale. Mi ha lasciato un’impronta decisiva.”
– E poi, dopo Bernardini?
“Eugenio Bersellini. Anche con lui ho lavorato alla Sampdoria: un uomo molto
serio, capace di affrontare i problemi con grande lucidità. Poi vorrei citare Nils Liedholm per la sua straordinaria capacità di gestione, la serenità che sapeva trasmettere all’ambiente. E anche la svolta che Arrigo Sacchi ha dato al calcio italiano. E la l’equilibrio di Eriksson, che racchiude e sintetizza un po’ le capacità di Liedholm e di Sacchi.”
– Passando dagli allenatori ai calciatori?
“Tutti quelli che ho avuto con me e con i quali abbiamo lavorato bene
insieme, in gruppo.”
– Sia un po’ meno diplomatico, per favore. Faccia qualche nome.
“La mia è una risposta sincera. Comunque, cito volentieri Gianluca Vialli: per la capacità eccezionale di mettersi completamente al servizio della squadra.”
– E poi?
“Col rischio di dimenticare qualcuno, e non vorrei offendere nessuno, al di là dei giocatori che quest’anno sono nella Juventus, mi vengono in mente Di Livio, Torricelli, Carrera, Marocchi.”
– Anche questa è una risposta che farà discutere. Ottimi professionisti,
ma non campionissimi. Lei non ha fatto il nome di un solo campionissimo, tra i tanti che sono passati nella Juventus.
“Sarebbe semplice, ovvio e forse inutile fare i nomi dei grandissimi, quelli con superiore caratura tecnica. Ma i grandi professionisti, quelli che danno tutto al gruppo, alla squadra, sempre irreprensibili sul piano dell’impegno umano e morale, sono preziosi e insostituibili, per un club di grandi ambizioni.”
– Questo riferimento ai valori etici mi suggerisce un’altra domanda. Al di là del calcio, cos’è veramente importante, nella sua vita?
“Al di là dei riferimenti preziosi per tutti, il lavoro, la famiglia, l’amicizia,
l’onestà e la buona fede nei comportamenti, per me le radici sono il lavoro più importante.”
– Mi spieghi bene.
“In tutta la mia carriera e tutta la mia vita non mi sono mai staccato dai miei luoghi d’infanzia, e cioè dalla Versilia, da Viareggio. Ho lavorato in tante città, ma Viareggio è il mio mondo. La mia famiglia è lì e i miei amici sono lì, i miei luoghi sono lì. I miei figli e i figli dei miei amici sono cresciuti insieme, hanno giocato a pallone come io giocavo a pallone con i miei amici, e dunque i miei amici sono sempre gli stessi, siamo invecchiati insieme e oggi, dopo tanti anni, qualcuno di noi, anzi quasi tutti siamo diventati nonni.”
– Mai tradita, Viareggio?
“Non ci ho mai pensato. La mia residenza è sempre stata lì. E oltre a tutto c’è un altro legame.”
– Mi dica.
“Un legame fortissimo è con il mare. E’ un innamoramento senza fine. Che si tratti di una battuta di pesca, di una gita in barca, di una passeggiata sulla spiaggia o anche, semplicemente, di restarmene a lungo ad assistere ad una mareggiata, senza parlare, il mare è un mio modo di vivere: non credo che potrei vivere senza il mio mare.”
settembre 02