Il 6 e il 9 agosto del 1945 le forze americane sganciarono le atomiche sui porti giapponesi di Hiroshima prima e Nagasaki poi, mettendo fine alla Seconda Guerra mondiale nel Pacifico. Le vittime dirette sono state stimate in 100mila nella prima città e 200mila nella seconda. Oggi la visione convenzionale dei fatti atomici è del tutto negativa, ma è una convinzione cresciuta perlopiù con la grande ondata di revisionismo degli anni Sessanta, probabilmente dovuta all’evolversi della Guerra Fredda. Nei primi anni post-bellici, la percezione anglo-americana dell’ “era atomica” era invece esageratamente ottimistica, in una maniera che oggi sembra quasi perversa. Una delle più curiose manifestazioni del fenomeno — oltre alla scherzosa adozione del nome “bikini” (un’isola sito di una prova atomica) per un costume da bagno allora scioccante — fu quella del “giardinaggio atomico”. Nel 1959 una simpatica signora inglese, Muriel Howorth, fondò la Atomic Gardening Society, che si occupava della distribuzione ai soci in patria e all’estero di semi irradiati con i raggi gamma. Lo scopo del trattamento era quello di creare piante mutanti da crescere nei giardini di casa per identificare mutazioni potenzialmente utili: una forma precoce di “crowdsourcing”. Mrs. Howorth finì personalmente sui giornali per le prime “noccioline americane atomiche” prodotte con il sistema. Il fenomeno — che vide la distribuzione di almeno 3,5 milioni di semi mutanti — durò solo pochi anni, ma dette vita ai cosiddetti “gamma gardens”, grandi orti annessi a centri di ricerca dove si espongono le piante alle radiazioni atomiche nella speranza di provocare mutazioni nel loro DNA, mutazioni permanenti che possano essere adottate nelle coltivazioni commerciali. La tecnica — brutale, ma economica — ha prodotto non pochi successi: per fare un esempio familiare, il pompelmo “rosa”, un colore che questi frutti non avevano in natura. Fuori dall’Europa avanza l’ingegneria genetica, ma le forti obiezioni europee agli “OGM” fanno sì che il Continente continui a preferire la creazione di mutazioni casuali attraverso l’irradiamento delle piante con potenti isotopi atomici artificiali come il cobalto-60. Il più noto di questi centri—insieme, forse paradossalmente, al giapponese Institute of Radiation Breeding — è il laboratorio di Nuclear Techniques in Food and Agriculture a Seibersdorf, Austria, operato congiuntamente dalla FAO e la IAEA-Agenzia internazionale per l’energia atomica, sempre dell’ONU. La FAO, a giudicare dalla scarsa attenzione dedicata alle mutazioni sul proprio sito Internet, parrebbe un po’ in imbarazzo davanti al tema, ma la IAEA lo ama molto. Parla con entusiasmo del rilascio di oltre 3.200 nuove specie vegetali “mutanti” agli agricoltori del mondo. La cosa curiosa di tutto ciò è che queste colture sono sicuramente “geneticamente modificate”, ma non le si definiscono tali. La giustificazione è interessante. Secondo Pierre Lagoda, “Section Head, Plant Breeding & Genetics” del laboratorio FAO/IAEA, non c’è niente di più naturale di procedere a casaccio per vedere poi cosa succede: un concetto che illustra ai visitatori gettando dei dadi sul tavolo mentre parla. Ne consegue che sarebbe “meno naturale”, perfino sospetto, tentare di sapere prima cosa si sta combinando: l’approccio dell’ingegneria genetica. Meglio lanciare i dadi e metterci nelle mani di Dio…
James Hansen, Nota Diplomatica