Stefano Lorenzetto descrive il leader radicale al di là della melassa di questi giorni
Ai vivi si deve rispetto, ai morti la verità (Voltaire)
di Stefano Lorenzetto
Quando nel pomeriggio di giovedì scorso il direttore di questo giornale mi ha chiesto un editoriale estemporaneo sulla scomparsa di Marco Pannella, ho preferito declinare l’invito. L’ho fatto perché so bene che i morti, in quanto tali, hanno sempre ragione ed è obbligatorio santificarli. Un’impresa, nel caso specifico, fuori della mia portata. L’indomani ho avuto puntuale conferma dell’alluvione salivare. Il Corriere della Sera ha aperto la prima pagina con un’enorme foto giovanile del defunto, accompagnata da un titolo altisonante («Pannella, la spinta ai diritti che ha cambiato l’Italia»), da una tenera vignetta di Giannelli e da quattro dolenti epicedi, uno dei quali firmato nientemeno che da Vasco Rossi, un tipo che va al massimo, com’è noto. All’interno, sette pagine erano interamente riservate al caro estinto (altrettante sulla Repubblica).
Benigno Zaccagnini, pediatra, partigiano, cofondatore e poi segretario nazionale della Democrazia cristiana, padre costituente, più volte parlamentare e ministro, ma soprattutto galantuomo di un’integrità morale assoluta, quando passò a miglior vita ebbe sul medesimo Corriere un richiamino su due colonne in prima pagina e un paio di brevi articoli in quella seguente, occupata per tre quarti da tutt’altri argomenti. Così va il mondo, e noi con esso.
Poiché ai vivi si deve rispetto ma ai morti non si deve altro che la verità (lo diceva Voltaire e Pannella concorderà), aderisco in ritardo all’invito del direttore per esprimere qualche parola sul trapassato, a costo di far stecca nel coro. Mi ci costringe il conformismo imbarazzante con cui i mass media hanno celebrato il «guerriero di libertà» (sempre il Corriere). Il premier Matteo Renzi, più svelto di Zelig, si è adeguato con tono solenne: «Rendo omaggio a nome mio e del governo alla storia di questo combattente e leone della libertà». Quale libertà? Libertà di drogarsi? Libertà di divorziare? Libertà di abortire? Libertà di farsi ammazzare se la vita diviene un peso? «Quando se slarga la libertà, bisogna saver difendar la verità», raccomandò l’allora patriarca di Venezia, Albino Luciani, al nostro compianto collega Michelangelo Bellinetti. Ci provo.
Il mese scorso sono stato invitato con mia grande sorpresa nella tana del lupo, la sede romana di Radio Radicale, dove un conduttore colto e garbato, Giuseppe Di Leo, con il pretesto d’interrogarmi per un’ora sul mio libro Giganti, a metà conversazione mi ha chiesto un giudizio su Pannella. Ho risposto che, pur non condividendo quasi nessuna delle sue battaglie, mi rammaricavo di non aver potuto contare su un trascinatore istrionico come lui nella difesa dei valori in cui credo. Ho anche previsto che sarebbe riuscito a strappare un’assoluzione in articulo mortis a papa Francesco, il che è in qualche modo avvenuto con un volume che il Pontefice gli ha inviato in dono poche ore prima del congedo dalla scena terrena. Per cui non mi sorprenderei affatto se Giacinto (più che altro Narciso) detto Marco precedesse i cattolici nel Regno dei cieli, insieme con i pubblicani e le prostitute, secondo la promessa evangelica. Anzi, lui finirà in paradiso e io all’inferno, ho concluso, subito rincuorato dal conduttore, il quale mi ha ricordato che esiste anche il purgatorio.
Del resto, per anni, Pannella ha millantato un filo diretto pure con Giovanni Paolo II. Adduceva, come prova, la foto di una presunta udienza privata concessagli da papa Wojtyla. In realtà si trattava di un incontro al quale partecipavano il dc Flaminio Piccoli e molti altri parlamentari. Ciò non impedì a don Gianni Baget Bozzo, pace all’anima sua, di beatificarlo: «Pannella in realtà è una figura interna alla cristianità, non è un politico: è un profeta».
Già, il profeta dell’antipolitica. Ma di che stiamo parlando? Questo signore è rimasto accoccolato per 60 anni, diconsi sessanta, dentro il Palazzo, lucrandone tutti i vantaggi. Ha prosperato nel ventre della vacca, la partitocrazia, fingendo di starne fuori, di combatterla. Nell’anno in cui venivo al mondo, Pannella già fondava il Partito radicale, divenuto il datore di lavoro che gli ha garantito ben sei legislature in quel Parlamento che nel 1990 approvò una legge per riconoscere a Radio Radicale la bellezza di 20 miliardi di lire sotto forma di contributo una tantum. Grazie a una convenzione stipulata con lo Stato, senza gara d’appalto, l’emittente ha poi incassato 10 milioni di euro l’anno per mandare in onda le sedute parlamentari che potrebbero essere trasmesse gratis dalla Rai. Inoltre la legge sull’editoria le garantisce altri 4 milioni di euro annui in quanto organo radiofonico di un partito che però non ha eletti nelle due Camere, un ossimoro fantastico.
Conosco Danilo Quinto, che fu per dieci anni il tesoriere del Partito radicale prima di convertirsi al cattolicesimo. Nel libro Da servo di Pannella a figlio libero di Dio (Fede & Cultura), dedicato alla «più formidabile macchina mangiasoldi della partitocrazia italiana», traccia un ritratto devastante del politico deceduto cinque giorni e del movimento che aveva messo in piedi, «una famiglia allargata dove tutto ciò che era privato diveniva anche pubblico, dove ci si accoppiava e ci si cornificava fra di noi, dove il massimo della gratificazione era salutare Pannella baciandolo sulle labbra quando si presentava alle riunioni mano nella mano con l’ultimo dei suoi fidanzati ventenni e lo imponeva come futuro dirigente o parlamentare». Il diretto interessato ha confermato: «Ho avuto tre, quattro uomini che ho amato molto».
A Pannella si perdonava la debolezza estetizzante di puntare su giovani presidenti o segretari che, alle doti intellettuali, unissero una grazia efebica, da Francesco Rutelli a Giovanni Negri, da Daniele Capezzone a Marco Cappato. Non sembrerebbe il massimo, come metodo di selezione politica. Da Gaetano Quagliariello, militante radicale oggi disperso in un gruppetto parlamentare di cui non rammento neppure il nome, il patriarca si fece trovare nudo e piagnucolante nella vasca da bagno: «Vorresti dimetterti proprio ora e lasciarmi così? Non ti rendi conto del dolore che mi dai?». L’attuale senatore non riuscì a proferire parola: «Capii solo che dovevo sottrarmi e scappare», confessò anni dopo. Sull’ultimo degli angeli custodi di Pannella, il Corriere ha scritto: «Quando Matteo è entrato nella vita di Marco si è subito parlato del «nuovo pupillo» del leone d’Abruzzo, e si è detto che per colpa di questo «pupillo» Emma Bonino fosse stata addirittura cacciata dal Partito radicale. In un amen».
Ecco, qui tocca parlare anche di lei, la creatura più riuscita del demiurgo contestatore, quella che papa Bergoglio ha citato «tra i grandi dell’Italia di oggi», ignaro del fatto, mi auguro, che costei nell’Italia di ieri (1976) svuotava uteri con una pompa per bicicletta, smaltiva i feti smembrati in un barattolo vuoto di marmellata e questo le sembrava «un buon motivo per farsi quattro risate» insieme alle sventurate che aveva appena aiutato ad abortire con tale metodo.
Mi ha raccontato Quinto – mai smentito in proposito – che per la sola campagna Emma for president, lanciata nel 1999 allo scopo di far candidare la sua beniamina al Quirinale, Pannella spese 1,5 miliardi di lire: «All’annuncio che Marco voleva la sua cocca sul Colle, lei svenne – o fece finta di svenire, non s’è mai capito bene – durante una riunione notturna in un albergo del Trevigiano». Il monarca assoluto dalla criniera bianca sperperò un mare di quattrini nel disegno megalomane e fallimentare del Partito transnazionale, che aveva 20 sedi, una perfino a Baku, nell’Azerbaigian. Spedì Quinto a lavorare in quella di New York. «Fu lì», mi ha spiegato l’ex tesoriere radicale, «che vidi i solidissimi rapporti esistenti fra Bonino, frequentatrice assidua del gruppo Bilderberg, e lo spregiudicato finanziere George Soros, il quale nel 1999 ci prestò 1 miliardo di lire. E fu lì che lessi il fax inviato da Pannella alla stessa Bonino quando la fece nominare commissaria europea nel 1994: «Cara principessa, ora tutti s’inchineranno ai tuoi piedi».
Si sa come vanno certe cose, basta aver visto Cenerentola. Un’anziana Fata Smemorina, la formula rituale «bibbidi bobbidi bu» e, oplà, una zucca (magari vuota) si trasforma in carrozza. Pannella lo ha fatto anche con la pornostar Ilona Staller, trionfalmente introdotta per via elettorale nel luogo dove più abbondano i Cicciolini, Montecitorio. Ha cercato di ripetere l’exploit con il venerabile maestro della loggia P2, forse suggestionato da Giorgio Gaber, che nel monologo L’abitudine recitava: «Io, se fossi Licio Gelli, mi presenterei nelle liste del Partito radicale». Il burattinaio della massoneria deviata fu davvero sul punto di essere candidato. «Il figlio Maurizio ebbe vari incontri con Pannella a Roma in un albergo di via Veneto», mi ha rivelato Quinto. «Posso testimoniare che Gelli junior è stato un grande finanziatore del partito».
E i digiuni estremi? Show artificiosi. Il medico di Pannella riferì a Quinto che quando il gandhiano decise di bere la propria urina davanti alle telecamere del Tg2, la sera prima la bollì e la mise in frigo per attenuarne la repellenza e allungare lo sciopero della sete. Pannella ha disposto che Radio Radicale annunciasse la dipartita con il Requiem di Mozart, e questo un po’ lo riscatta. «Dies irae, dies illa», giorno d’ira, sarà quel giorno. In cuor suo lo sapeva.
Massimo Gandolfini, il leader del Family day, mi ha confidato un episodio accaduto durante un dibattito sull’eutanasia e sulle unioni civili svoltosi a Verona, nel quale Pannella era finito a parlare dell’Annunciazione di Maria e del valore della religione. Al termine dell’incontro, Gandolfini disse al coriaceo anticlericale, già gravemente malato: «Marco, ho sentito che sei in piena crisi mistica, voglio farti un regalo». E gli mise fra le mani una corona del rosario. Lui sorrise. Spero, con tutta l’anima, che gli sia servita.
di Stefano Lorenzetto, Italia Oggi